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Truman
Capote - A sangue freddo (Usa
2005) di Bennett Miller con Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener,
Chris Cooper, Clifton Collins jr., Bruce Greenwood
Philip Seymour Hoffman è un Truman
Capote fatto di scarti e di silenzi (nell’originale,
il lavoro sulla voce sembra che gli sia valso da solo l’Oscar),
di tratti asciutti e piccole movenze che, nell’impercettibile
sfumatura di una maschera (la quale appena più caricata sarebbe
potuta diventare l’involontaria
caricatura di Elton John), riesce a restituire l’enfasi dell’ambizione,
le sottili paturnie e le terribili contraddizioni interiori del grande
scrittore americano.
Bennett Miller, al primo film, lo segue con una regia che, tutta al suo
servizio, ne scruta i fragili movimenti interiori con un découpage mai invasivo, fatto di raccordi e movimenti sempre funzionali all’azione
e alla possibilità che ad emergere sia soprattutto il dramma dei
personaggi.
Il film è la storia dell’autore di Colazione
da Tiffany,
tra i primi intellettuali dell’era massmediale e icona, ante litteram,
di un certo personaggismo da televisione del pomeriggio (e non
ce ne voglia Arbasino). Ma, soprattutto, scrittore straordinario
che con A
sangue freddo, inchiesta romanzata di un crudo fatto di
cronaca che sconvolse l’America degli anni cinquanta,
ha da solo aperto la strada al noir contemporaneo.
Tratta dalla biografia di Gerald Clarke, la sceneggiatura
di Dan Futterman ha il merito di stringere le vicende
della vita di Capote intorno ad un unico, esemplare,
episodio. E’ il 1959 quando lo
scrittore – stella
del jetset newyorchese – sulle pagine di un quotidiano si imbatte
nella notizia dell’orrendo sterminio di una ricca, tranquilla famiglia
del Kansas, i Cutter.
Parte da qui un’inchiesta in cui Capote si prefiggeva di raccontare
le emozioni della piccola comunità stravolta dal dramma e di approfondire
la dinamica dei fatti.
Ma l’incontro con i due assassini, Perry Smith e Dick
Hickock,
un’attrazione morbosa nei confronti di quella macabra vicenda e,
soprattutto, i primi segni di una tetra, seppure velata, immedesimazione
con Smith, convince lo scrittore a tentare un’operazione
letteraria inedita e rischiosa: un romanzo nero, nerissimo, ma che nascesse
da un rapporto diretto e “connivente” con gli autori dell’efferato
episodio. Che conosce, che vede, che interroga e che, infine, intuisce
come siano troppo vicini a se stesso e come egli stesso ne sia in qualche
modo complice.
Personaggi di un libro, eppure in carne ed ossa; gioco pirandelliano,
ma al rovescio, il racconto lavora su più antinomie: i pericoli
della metropoli contro la tranquillità della campagna (ma è proprio
nella sospensione arcadica della provincia che, invece, la terra viene
concimata dal sangue); la convenzione sociale contro l’eccentrica
diversità; e, correlato, il riconoscimento di sé da parte
della comunità contro l’esiziale alienazione del difforme.
Ma è, infine, la tragica consapevolezza di Capote – che,
in quel vortice di emozioni in cui, sulle orme dei corpi martoriali dei
Cutter (i tagliatori tagliuzzati…) oramai è pienamente
coinvolto, – che sia il destino di Perry ad arare
il disegno finale della sua vicenda di uomo e di scrittore, a rendergli
chiaro che l’unica
possibilità di chiudere l’inchiesta e di metter un punto
all’ora che gli si para davanti, non può che essere la pena
capitale, perché solo la morte di Perry può chiudere
il lugubre transfert di cui è ormai vittima l’autore. Che è “l’ultimo
a vederli vivi” – come recita il titolo del primo capitolo
del libro A sangue freddo – perché è l’ultimo
che, oltre alla ricostruzione dell’infamia, ha dato loro lo spazio
per infrangere il silenzio. E la paura. Ovvero, uno schizzo di umanità.
Ma l’omicidio, come quello che la povera famiglia Cutter ha
patito, è pur
sempre un gesto bruciato a caldo, con il sangue che bolle in
un impeto assassino e terribile, ma che ha una sua ragione nel ferale
e misterioso ottundimento della ragione. Un’inchiesta giornalistica,
no; di più, la letteratura, no: quella non può che essere
perpetrata con lucidità e rigore. Pensata e ponderata. Pianificata,
anzi. Come il peggiore dei complotti. O il più truce degli
omicidi. A sangue freddo, insomma.
Capote, in A sangue freddo, dava parola e legittimità tragica
alla follia di Perry e del suo complice. Strappava, cioè, al silenzio
eterno la testimonianza del male. Perché solo il silenzio è degli
innocenti, e uno scrittore – è questo il punto – non è mai
innocente. E per questo scrive. E, scrivendo, uccide (touché!,
mister Faletti).
(Corrado
Morra) |
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