|
|
|
Il
sole (Russia/Francia/Italia/
Svizzera 2005) di Aleksandr Sokurov con Issei Ogata, Robert Dawson,
Kaori Momoi
La figura esile dell'imperatore seduto a un
tavolo minuto per consumare la colazione; gli inservienti piegati dall'angoscia
e da spazi che sembrano non poterli contenere; i gesti impacciati nonostante
collaudati da cerimoniali antichi. E poi l'alternanza di campo e controcampo,
nel dialogo tra l'imperatore e il ciambellano, scandita da scandalose
dissolvenze che subito rallentano il battito cardiaco del pubblico
in sala. Bastano poche inquadrature per capire che si entra in uno
spazio-tempo fatto di straniante rarefazione, densità psicologica
e struggente lentezza. Il sole ,
terzo capitolo della tetralogia pacifista iniziata con Moloch (1999)
e proseguita con Taurus (2001) , racconta i giorni
che precedono il 15 agosto 1945 quando Hirohito fece udire per la prima
volta la sua voce alla radio affinché cessassero le ostilità,
rinunciando, ipso facto , al suo stato divino.
Sokurov, come era già accaduto
con i primi due film, organizza il suo discorso sul potere concentrandosi
sull'analisi psicologica dell'uomo di potere. Qui, in più, c'è una
partecipazione emotiva nei confronti dell'uomo che diventa forse eccessiva
e non aiuta certo a formulare giudizi limpidi sulle responsabilità storiche,
ma che viene subito compensata dall'assunzione a simbolo della parabola
umana di Hirohito alla fine del secondo conflitto mondiale.
Appoggiandosi alle intense capacità mimiche
di Issei
Ogata, Sokurov si sofferma sul primo
e sul primissimo piano, raccontando una sorta di passione all'incontrario
che dal divino cerca di trascendere all'umano. Gli elementi del racconto
sono controllati con mano ferma: profilmico, découpage, fotografia,
tutto contribuisce a restituire l'oscillante movimento tra un irriducibile
isolamento e la tensione verso una familiare quotidianeità.
Su tutto, un senso di angoscia scandito da una gestualità dell'imperatore
e della sua corte sempre impacciata, che mette in scena, con evidenza
drammatica, lo scarto insanabile tra condizione e situazione.
Il gesto impacciato è davvero qualcosa in
più di una cifra
stilistica: è chiave interpretativa del personaggio e della storia,
tanto consapevole da poter diventare in certi momenti commovente e delicata
ironia. In uno dei passaggi più suggestivi, Hirohito passa
in rassegna il suo album dei ricordi e affianco alle immagini della famiglia
reale, dei suoi pari e dei "grandi" del suo tempo, troviamo
inaspettatamente quelle di Chaplin e della Garbo.
Come a dire che son fatti della stessa sostanza? L'imperatore è dio
in terra. Ma dio è come
un divo del cinema. Anzi, è come un divo del cinema muto. Manifesta
la sua presenza per epifanie iconografiche senza che però sia
dato far sentire la propria voce. Come non notare che la rinuncia allo
status divino passerà proprio per la registrazione radiofonica
della propria voce? Dio è divo insomma, ma ha perso ormai la sua
aura sacra. Poco dopo, davanti a irridenti e irriverenti reporter embedded dell'esercito
americano, l'imperatore viene schernito giacché somiglia a Chaplin e
lui chiede al ciambellano: "Ma è vero
che somiglio a Chaplin?" La
domanda più che nascondere disappunto lascia intravvedere un incoffessabile
compiacimento. Sono ancora paragonabile a un dio-divo? Ma lui è ormai
un dio-divo fuori contesto come appunto gli eroi di celluloide passati
all'era del sonoro e della scansione a 24 fotogrammi. C'è una
scena, quella del congedo tra Hirohito e McArthur, con
l'imperatore davanti a una porta che per la prima volta, Lui, dovrà aprire
da solo, che a vederla velocizzata sembrerebbe proprio una gag di Charlot ma che vista a velocità "normale" ci commuove per la
fragilità tutta
umana che esprime.
E ancora gesti impacciati nella - bellissima
per intimità domestica
- scena finale del ricongiungimento dell'imperatore con la moglie, prima
che la macchina da presa lasci pudicamente andare i due in uno spazio
tutto privato, per chiudere, in un finale da cinema classico, sull'uniforme-simulacro
lasciata cadere sulla spalliera di una sedia.
(Giulio
Arcopinto) |
|
|
|
|