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Il Sarto di Panama (Usa 2001) di John Boorman, con Pierce Brosnan, Geoffrey Rush, Jamie Lee Curtis, Brendan Gleeson

Dal mythos al logos verrebbe da dire: un accidentato percorso filmografico
contraddistinto da una tenace perlustrazione degli ambigui confini tra
natura e cultura, da una indefessa contemplazione della ammaliante e
numinosa bellezza delle forze primordiali, da una strenua rappresentazione della hybris più feroce e funesta (affrontata con una capacità di sguardo che è seconda, per tensione contemplativa, solo a quella dell'altro grande visionario del titanismo cinematografico: Werner Herzog) trova una inaspettata tregua, con la messa in scena di un classica vicenda di spionaggio, un gioco tutto cerebrale, all'insegna del wit e della capacità affabulatoria, in cui la maestà pagana dei paesaggi incontaminati e la ferocia rivelatoria dell'homo homini lupus, sono contemplate soltanto
parenteticamente.
Questo è Il Sarto di Panama, vero masso erratico, nella compatta filmografia del regista inglese.
Si capisce che venendo a mancare il sostrato visionario in una sceneggiatura in cui è la parola e il gioco dialogico che la fanno da padroni, Boorman si sia rivolto all' adattamento di John Le Carré con lo scopo palese di affrontare un genere cinematografico ad alta codificazione come il thriller spionistico per smontarlo dal di dentro. Una pratica decostruzionista postmoderna che Boorman aveva affrontato col suo primo film americano e che poi aveva abbandonato del tutto, preferendo assecondare le più vibranti urgenze espressive di un cinema dichiaratamente e fermamente "moderno". Il suo ultimo film, in questo senso, è un anomalo e disorientante à rebours. Come in Point Blank, infatti, si giocava a far saltare le aspettative spettatoriali tramite un montaggio irrispettoso delle logiche temporali del crime-film, anche ne Il Sarto di Panama c'è il rovesciamento significante dei topoi del genere (la cinica ed arrogante caratterizzazione palinodica di Brosnan come anti-Bond è, forse, la parte più riuscita della pellicola in termini di svecchiamento delle retoriche filmiche). Ma l'occhio di Boorman così carico altrove di accensioni liricheggianti e di visionarietà lirica perde qui vigore e consistenza, rendendo piattamente esotico e folcloristico (si veda la banale utilizzazione degli esterni panamensi, o l'approccio semplicistico
alle note di 'costume') il suo usuale ricorso semantico al profilmico, in
precedenza affrontato con perizia evocativa (Duello nel Pacifico) ed
alterità di sguardo (Un tranquillo week-end di paura).
Certo la capacità di costruzione ritmica di Ron Davis, la fotografia a
tratti lussureggiante del raffinato Rousselot, per non dire di certi afflati
visionari (la sequenza 'a pelo d'acqua' fra Brosnan e la Curtis, la
selvaggia bellezza degli scorci ambientali) che ricordano a tratti il
miglior Boorman, spezzano ogni tanto la rigidezza di una concezione formale
un po' troppo televisiva. Ma ad imprimersi alla mente con maggior forza è senz'ombra di dubbio lo straordinario e impagabile Geoffrey Rush, vero motivo d'essere di una pellicola che costruisce la sua intera intelaiatura drammatica sulla sua maschera di pavido e meschino jedermann: quella anonima e persino tenera figurina di umanità in minore stretta fra truffaldina indolenza e cinico conformismo, tratteggiata dall'attore con ammirevole ed esemplare labor limae.

(M.R.)



 

 

 

 

 

 

 

 

 

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