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Pater Familias (Italia 2002) di Francesaco Patierno con Luigi Iacuzio, Federica Bonavolontà, Francesco Pirozzi, Francesco Di Leva, Domenico Balsamo, Michelangelo Dalisi, Ferdinando Triola,Vincenzo Pirozzi, Carlo Triola, Antonella Migliore, Paolo Oliva, Renata Brando, Marina Suma

Presentato nella sezione “Panorama” del 53esimo Festival di Berlino, Pater familias segna l'esordio cinematografico di Francesco Patierno. Esperienze nella pubblicità e nella televisione (“Okkupati” sulla Rai), il regista è anche coautore della sceneggiatura, scritta con Massimo Cacciapuoti a cui, prima ancora, si doveva l'omonimo romanzo.
La storia – quella di un manipolo di giovani della banlieu nera napoletana, spazzati via ad uno ad uno dalla violenza (e dal caso) – è durissima: Matteo (Domenico Balsamo), l'unico “superstite”, benché non avesse fatto in tempo ad “uscire dal gruppo”, ottiene un permesso dal carcere, dove era finito anni prima per aver ucciso Alessandro, fratello incestuoso della sua fidanzata, per far visita al padre morente. Nel breve lasso, il ragazzo, oppresso dai sensi di colpa e dalla fune al collo del rimorso, troverà il tempo per mettere mano alla nobile trama dell'espiazione. Organizzerà, allora, con l'aiuto di una suora-coraggio, la fuga di Rosa, sua vicina e vecchia, inconfessata fiamma, costretta dal padre anni prima ad un matrimonio riparatore e irrimediabilmente infelice con un giovane delinquente rozzo e violento.
Storia à rebours, dove il peregrinare di Matteo per la cittadina natale assume l'afflato eroico del vagare odisseico e, insieme, il patimento salvifico delle 14 Stazioni, il film, seppure parta dal nobile presupposto di raccontare, senza giudizio, la parte malata di una società (e dare, quindi, voce a quello che l'“ordine del discorso”, censorio e livellatore, come direbbe Foucault, imporrebbe fosse rimosso), incespica in una struttura singhiozzante, che un onnipresente flashback avrebbe l'onere di mettere a posto, e una sceneggiatura, invece, tanto didascalica nell'aspro dialogico da risultare, a volte, un po' accademica. E addirittura imbarazzante come quando la giovane Rosa (una pur brava Federica Bonavolontà), affacciata al balcone, parla con Matteo del brutto tipo che le fa la corte (e da cui aspetterà un figlia) svelando che, seppure lei sia ben conscia di quanto sia pericoloso, quel ragazzo, comunque era l'unico a riservarle una qualche attenzione, e tutto questo dicendo qualcosa che suona più o meno così: “Comunque lui mi fa sentire importante”. Non la sentivamo da anni, questa cosa, e, l'ultima volta, chi l'ha detta avrà avuto sì e no nove anni.
Il film è sottotitolato per aiutare i non-napoletani alla comprensione di un dialetto a volte strettissimo (a volte non udibile, e basta), recitato da un gruppo di attori convincenti, tra i quali un buon numero di giovani non professionisti. Eppure, l'italiano dei sottotitoli getta solo un ulteriore luce sinistra su una scrittura sciatta e che, nella retorica del cinéma vérité, non esce mai dalla stereotipo. A tal proposito, vorremmo chiedere come sia stato mai possibile che la parola “puttana” sia stata resa, nei sottotitoli, con “negra”. Delle due una: o la post-produzione è stata fatto in un paio di minuti o qualcosa nel film non va proprio. Ma, per entrambe le ipotesi, la domanda è: stiamo scherzando?
Non bastano grandi temi per fare dei capolavori, e questa è vecchia. Ragion per cui, ad esempio, sui fatti di Tangentopoli, il testo definitivo non sarà mai l'ignobile In questo mondo di ladri di un Venditti; e non bastano un pugno di ragazzi di vita per fare Pasolini. E di Pasolini, qui e lì evocato, Pater familias non ha (ma forse manco vuole avere) la sovrastruttura morale, sebbene affiori, attraverso un montaggio per associazioni (la cosa migliore), un sicuro impiego del simbolo: è la volta della sporca corte dove si affacciano gli appartamenti di Matteo e di Rosa ad un cui balcone sono stesi, a faccia in giù, due peluche rattrappiti; o quella nella quale, il cadavere di Alessandro sul ciglio della strada è “accostato” ad un cane randagio.
Sulla storia e sulle vicende dei protagonisti (purtroppo sempre sfiorati, come nel caso del tanto promettente Michele, cugino di Matteo e straordinaria anima ambigua) resta, però, un senso di incompiutezza fatale, muovendosi al ritmo di un invasivo downtempo e una colonna sonora ruvida e poco opportuna; saltellando, a colpi di digressioni e primi piani e, in dissolvenza, di ricordi (buffo quello di Matteo che, ad un certo punto, pare gli sobbalzi alla mente l'episodio del collasso sul cesso della sua fidanzata, senza che egli, in effetti, ne sia stato spettatore), di ellissi, e di cambi di registro visivo – ora il Dogma ortodosso, ora il découpage più ordinato da seconda serata tv –, fino ad una pacificatrice e vacua palingenesi finale. Ma quello che le continue ellissi afferrano per i capelli è, infine, lo stesso sguardo morale della storia, per portarlo solo dio sa dove.
Qualche spunto di classe (quella sorta di ritornello visivo al ralenty dei cinque ragazzi che scendono un muretto e, tra loro, ultimo a saltare l'emaciato Matteo, come ultimo sarà a saltare nella bocca dell'Ade...), e momenti particolarmente intensi (nell'inutile sequenza della rivolta a scuola, ad esempio l'evocativo frantumarsi della statuina della Madonna gettata nella tromba delle scale), ma il trailer resta, per questo, assai più incisivo del film. E il resto – a dispetto di culi e sodomie, puttane e papponi, schiaffi e sputi, stupri e suicidi – non turba mai davvero lo spettatore e scende giù tranquillo come una qualsiasi puntata di Quark su una misteriosa fauna esotica. Perché non c'è mai l'azzardo di una risposta (che presuppone analisi e dubbi) a questo imperio di male e cemento, ma solo il freddo compito del (finto) reportage. Non ci sono ragioni (cioè cultura), ecco, ma solo il ritratto di un ecosistema.
Il film, alla fine, annuncerebbe pure una fruttuosa funzione metatestuale, quando notiamo come la madre della giovane Rosa – che non coglierà l'occasione per amare e farsi amare dal sofferto e pio Matteo – è interpretata da una silente Marina Suma, già Rosa nelle omonime “occasioni” di Piscicelli: è lo stesso degrado, morale e fisico, questo narrato da Patierno, di quella Napoli di vent'anni fa che, con Rosa, evidentemente non può cogliere mai le sue occasioni...
Pater familias racconterebbe la colpevole assenza contemporanea dei padri. Patierno racconta, invece, l'altrettanto colpevole assenza di una visione non-televisiva del voyeristico cinema contemporaneo. Peccato, una serie di occasioni sprecate.

(Corrado Morra)

 

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