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Il
nemico alle porte (Francia
2001) di J. J. Annaud,
con Joseph Finnes, Jude Law, Bob Hopkins.
La tundra innevata, un bambino
con un fucile da un lato, un lupo dall'altro. I due si sentono ma i loro
sguardi invano cercano di incrociarsi. Il bambino ha il dito sul grilletto,
il nonno al suo fianco ne guida amorevolmente i gesti, lenti, freddi,
controllati. Stacco. Il bambino, diventato intanto un bel ragazzone, viene
catapultato contro l'esercito nazista nel bel mezzo dell'offensiva alla
città di Stalingrado nell'autunno del quarantadue. La scena mette
i brividi e ci ricorda quella di Spielberg (anche qui la carneficina si
consuma in uno specchio d'acqua che diventa un elemento simbolico da attraversare).
Diciamolo, la cosa ci piace. Ci piace innanzitutto che il cinema europeo
abbandoni ogni tanto il profilo minimalista e prenda a raccontare la grande
Storia. Ci piace che lo scontro tra i due eserciti si concentri narrativamente
in una vicenda personale: nel duello tra l'eroe (nella fabula e nella
realtà) e l'antagonista nazista. Ci piace che ci sia pure una storia
d'amore tra Vasilij, l'eroe, e una bella e giovane rivoluzionaria. Ci
piace insomma che ci siano tutti gli elementi dello spettacolo applicati
a un operazione di cultura (che è spesso il segno di un atto di
intelligenza). Purtroppo Annaud, non è Spielberg, non è
regista americano, e non può dimenticarsi che il cinema europeo
è: a) cinema di autori; b) cinema per pochi intelletti. E così
, in nome della "rosa" si lascia prendere da una mania di stile
e di buone intenzioni che soffocano irrimediabilmente la progressione
del racconto. Un esempio: subito dopo la scena prima descritta, mentre
ci accingiamo a sprofondare con l'immaginazione nello spettacolo e con
la mano nel sacchetto dei pop corns, una grafica che ricorda quella dei
cinegiornali d'epoca ci informa sul contesto in cui si colloca la storia;
sullo stato dell'espansione nazista ecc. ecc. Tutto molto sofisticato,
ma intanto le nostre buone intenzioni di immedesimazione vanno a farsi
benedire. Il film è tutto costellato da questi momenti, spesso
associati all'uso di didascalie, motivati dalla preoccupazione di allargare
lo sguardo sul contesto generale e spia di una regia incerta che non sapendo
se concentrarsi sulla progresione narrativa o sulla grande STORIA, finisce
con non restituirci né l'una né l'altra. Pensate alla potenza
con cui ci era stata resa la spietata assurdità della guerra nel
film di Spielberg, con uno sguardo mai distratto da alcuna cosa che non
fosse l'avventura particolare di un manipolo di soldati. Non è
che tifiamo per gli Americani: è che fanno più film e hanno
migliore preparazione atletica.
(G.
A.)
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