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La meglio
gioventù (Italia 2003) di Marco
Tullio Giordana con Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Sonia Bergamasco, Adriana
Asti, Fabrizio Gifuni, Maya Samsa, Jasmine Trinca.
Vivaddio,
una pellicola italiana che ha il coraggio di rivendicare nuovamente per
il cinema un respiro storico e civile. Diretto da Marco Tullio Giordana
e sceneggiato da Sandro Petraglia e Stefano Rulli, il film
vincitore a Cannes della sezione Un certain regard, affronta
con grande rigore intellettuale quarant'anni di storia italiana attraverso
la parabola generazionale dei nosti padri e dei nostri fratelli maggiori:
di quegli angeli del fango che tra totalizzanti slanci ideali
ma anche dolorose sconfitte e contraddizioni hanno avuto il coraggio di
combattere i dinosauri dell'italia democristiana e post-fascista degli
anni '60. Finalmente una storia diversa dai tormentoni minimalisti, delle
crisi tardo-adolescenziali, dai bacetti della generazione del telefonino.
Riallacciandosi idealmente al grande cinema italiano d'autore, il film
di Giordana fa riscoprire quanto può essere avvincente e
commovente il racconto civile. Ma La meglio gioventù
è anche per larghi tratti grande cinema. Fino all'ultima ora si
resta quasi avvinti dalla precisione della messa in scena, dalla cura
maniacale (vivaddio numero 2) del dettaglio, dai dialoghi mai banali,
da una regia inappuntabile, sia quando dirige gli attori sia quando ricorda
che qualla del regista è ancora l'arte del decoupage, dell'inquadratura
cercata per dire qualcosa in più sul racconto e non per esaltare
l'incarnato della valletta prestata al cinema di turno, che qui (vivaddio
numero 3) non c'è. In compenso c'è un cast ottimo, con gli
attori tutti decisamente in parte (vivaddio numero 4), in cui spiccano,
oltre all'ormai collaudato Nicola- Luigi Lo Cascio, la piacevole
sorpresa di Matteo-Alessio Boni e una straordinaria Maestrina-Adriana
Asti, protagonista di un meraviglioso momento di cinema in una scena
in un'aula scolastica, nella seconda parte del film.
Peccato. Usando una
metafora de-zaniana, a Giordana mancano le gambe nello
sprint finale. Dopo 5 ore di gran bel cinema, La meglio gioventù
si allinea al tono scontato e senza mordente della solita fiction televisiva
all'italiana. Lo sguardo rigoroso e attento con cui il regista ha seguito
i suoi protagonisti fino agli anni '90, diventa improvvisamente troppo
indulgente e bonario quando si tratta di raccontare gli anni a noi più
vicini: quasi che il rinchiudersi di quei protagonisti in una dimensione
tutta individuale non avesse nulla della sconfitta di fronte a un mostro
che ha solo cambiato pelle e di una colpevole ritirata ma quasi una sorta
di meritato riposo del guerriero. Riposo che si consuma, ahimè,
proprio in un casolare toscano stile famiglia Barilla, popolato da una
torma di paciosi giovanotti (i figli dei guerrieri), che sembrano
la quintessenza dello stare bene e in pace (in pace da che?). Francamente
tutto troppo rappacificato. Il film, di fatto, rinuncia a questo punto
a vivisezionare e portare alla luce con la stessa risolutezza di prima
le contraddizioni della società italiana post-tangentopoli. Anche
la regia si adegua, diventando improvvisamente poco controllata, monodimensionale
ai limiti del banale, con momenti davvero da dimenticare come quando lo
spirito di Matteo (suicidatosi lanciandosi da un balcone) accompagna per
un sentiero della campagna toscana il fratello Nicola verso la definitiva
elaborazione del lutto.
Considerando i problemi di distribuzione avuti dal film (la pellicola
rischiava di essere praticamente accantonata dalla RAI se non fosse
stato per il premio ricevuto a Cannes) forse non si poteva pretendere
di più: se i dinosauri sono ancora vivi e vegeti e sono quelli
che ti fanno lavorare, forse è meglio portare a casa una vittoria
parziale e rimandare la vera conclusione della storia al prossimo film.
In ogni caso, bravo Marco.
(Giulio
Arcopinto)
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