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CAPITOLO TERZO
La videoarena del visuale proteiforme, ovvero: il grado zero della metafora
C'è qualcosa nella natura del nastro, nella grana dell'immagine, nei
toni barbuglianti del bianco e nero, nella sua essenziale crudezza, che ti fa
pensare che sia più reale, più aderente alla vita di tutto ciò
che ti circonda. Le cose che ti circondano sono meno immediate, sembrano provate
e ritoccate davanti allo specchio, abbellite dai cosmetici. Il nastro è
iperreale, o forse sarebbe più appropriato dire subreale. È ciò
che rimane sul fondo scrostato di tutti gli strati che hai aggiunto. E questo
è un altro dei motivi per cui continui a guardare. Il nastro è
di un realismo folgorante.
DON DELILLO
Nel prossimo secolo
del cinema, il rispetto dello spettatore, come elemento intelligente e costruttivo,
sarà inevitabile. Per arrivare a ciò è necessario forse
allontanarsi dal concetto secondo cui il regista è l'artefice assoluto.
Bisogna che il regista sia anche lo spettatore del suo film. Il cinema durante
cento anni è appartenuto ai registi. Speriamo, perché i tempi
sono maturi, che si faccia intervenire lo spettatore nel secondo secolo di vita
del cinema.
ABBAS KIAROSTAMI
Videodrome è metamorfosi in divenire della visione. Trasformazione in
diretta del nostro sguardo di spettatori alla deriva, della nostra già
instabile percezione del mondo. Videodrome è l'hic et nunc delle mutanti
decodifiche sensoriali; è il sorgere di embrionali canali ricettivi e
di anomali apparati di decodifica del corpo che spingono, inesorabilmente, verso
un'immersione radicale dell'essere nella proteiforme consistenza di un immaginario
sempre più vivo e pulsante. Videodrome è il fulcro irradiante,
il centro di gravità dell'opera cronenberghiana, il punto di convergenza
e d'arrivo di tutte le coordinate tematico-stilistiche già tracciate
dalla precedente produzione del regista, ma che trovano qui la loro più
convincente espletazione: inesauribile dispositivo generatore di segni concettuali,
serbatoio di formulazioni critiche sulla nuova natura del mezzo cinematografico,
inquietante saggio massmediale, diagnosi di un nuovo assetto globale della comunicazione,
manifesto filmico di un cinema che si vive in prima persona, breviario fondamentale
del nuovo Verbo.
Videodrome è tutto questo e molto altro ancora.
* * *
Per evitarci sospetti di lezioso
formalismo e di fatua propensione alla simmetria, basterà dire della
centralità teorica ed espressiva che Videodrome assume all'interno del
corpus cinematografico cronenberghiano, così legittimando la decisione
di inserire strategicamente il seguente capitolo al centro di questo lavoro:
la scaturigine unica di tutti i percorsi interpretativi e delle proposte critiche
affrontate nell'intero corpo di questo studio è da ricercarsi in questo
preciso film. Le parti che lo precedono e gli interventi che seguono ne sono,
sostanzialmente, un riflesso teorico. Esaustivo florilegio dell'universo artistico
del regista, Videodrome è anche un capiente ricettacolo ermeneutico,
in cui sembrano confluire armoniosamente divagazioni filosofiche, ipotesi socio-antropologiche
e nuove prospettive estetiche.
Al fine di visualizzare, con sufficiente chiarezza, l'intima natura polisemantica
del film, per enucleare compiutamente tutte le sue problematiche, ci è
sembrata soluzione adeguata una dettagliata analisi descrittiva; metodologia
che garantisce l'agevole dispiegarsi di una disamina filmica, condotta, per
quanto possibile, seguendo la cadenza ritmica dell'opera e il preciso avvicendarsi
delle sue sequenze, e soprattutto concepita per fornire al lettore, al di là
di una necessaria sinossi (utile guida per non perdersi nei meandri narrativi
della vicenda), una solida griglia concettuale di partenza; impostata la quale,
ci si muoverà per una ricognizione delle numerose proposte critico-interpretative
che hanno interessato la pellicola del regista canadese e per proporne poi i
possibili punti di contatto con le più disparate formulazioni multidisciplinari.
Dal testo al contesto, dunque, assecondando il disegno a rizoma delle svariate
applicazioni teoriche che un'opera come Videodrome ha finito necessariamente
col generare.
* * *
Si chiamerà in causa l'indulgenza del lettore per le digressioni, che ci siamo a volte permessi, nel far riferimento a talune sequenze di eXistenZ, poiché, se anche lederanno l'omogeneità di una analisi, che si è voluta sistematica e monografica, dell'opera citata in esergo, ci sono sembrate tuttavia assai opportune per una comprensione globale dei temi trattati; vuoi perché l'ultimo film di CRONENBERG appare come un indispensabile aggiornamento teorico di Videodrome, una postilla imprescindibile del pensiero del regista in materia di virtualità e nuove elaborazioni iconografiche, una inevitabile estensione ermeneutica nei territori più rappresentativi del consumo visuale - dalla fascinazione ipnotica dell'arena televisiva all'interattività convulsa dei videogame - vuoi soprattutto per delineare, con diacronici termini di paragone, l'evoluzione estetica e concettuale di un nuovo modo di pensare e raccontare il cinema, frutto dell'indubitabile coerenza di un autore capace di usare il medium espressivo come un dispositivo filosofico e linguistico di straordinaria efficacia, per sondare il sempre mutevole rapporto fra l'uomo e il suo riflesso, fra lo sviluppo socio-antropologico e le dinamiche culturali in cui tale sviluppo si viene ad inscrivere, fra i meccanismi dell'intelligenza creatrice e le forme delle sue rappresentazioni. Per questo CRONENBERG ci appare oggi come uno dei pochi cineasti in grado di farci assaporare, con stordente anticipazione, quello che ci riserva il futuro. Non solo il futuro dell'arte, ma anche il futuro dell'uomo.
* * *
Il
film si apre su un'immagine televisiva: la "Civic TV - il canale che vi
portate a letto", con tanto di sigladall'infantile jingle introduttivo
e rozza grafica da fumetto impertinente, apre le sue trasmissioni del mattino;
il procedimento stilistico atto a far coincidere, e quindi confondere, lo schermo
TV con la totalità dello spazio cinematografico non ha pretese di originalità
(ricorre sovente, ad esempio, nei film di BRIAN DE PALMA dove genera vere e
proprie vertigini del senso e produce un feedback percettivo dello sguardo in
riferimento ai diversi mezzi comunicativi impiegati) ma l'efficacia della trouvaille
risulta sia dalla decisione di servirsene subito in apertura, ex abrupto, spiazzando
lo spettatore circa l'effettivo contenuto formale del film e convogliando quindi
l'ambigua sensazione di un rapporto instabile fra spettatore e opera, sia perché
costituisce un ottimo esempio della sintesi espressiva del regista, in questo
caso impiegata, quasi dichiarazione d'intenti, per impostare e convogliare in
una prima immagine i temi e la "materia" di cui il film tratterà:
l'invadenza, fin nei recessi del quotidiano, dei nuovi media, in particolare
dell'immagine televisiva, la corporeizzazione della tecnologia, risultato di
un'inedita interazione fra uomo e macchina, il potere persuasivo, fascinatorio,
metamorfizzante del visuale, esercitato primariamente nelle oscure zone psichiche
del desiderio.
Lo sguardo accattivante di una donna e il tono suadente della sua voce sono
diretti verso la macchina da presa, dando così la sensazione di un invito
rivolto allo spettatore, almeno fino al momento in cui si rivolge personalmente
al protagonista della vicenda, chiamandolo confidenzialmente per nome: Max Renn
(JAMES WOODS), lo intuiamo, giace addormentato e la trasmissione televisiva
si rivela essere nient'altro che un messaggio-sveglia da parte della segretaria.
Nonostante la sua apparente natura anodina, la scena che segue è meritevole
di un'analisi ravvicinata; sia perché diffonde suggestioni visive che
permeeranno tutto il film, sia perché presenta, paradigmaticamente, il
tema centrale e ineludibile dell'opera: l'inevitabile incertezza epistemologica
dell'uomo contemporaneo nei confronti della polimorfa natura delle immagini
in movimento.
La macchina da presa si sofferma per un po' sul viso della donna che, nonostante
il proposito professionale del suo discorso, usa una mimica e un tono apertamente
maliziosi, densi di doppi sensi sessuali e provocatorie avance erotiche. La
natura fantasmatica ed evanescente della sua apparizione sullo schermo non censura
il livello emotivo e personale delle dichiarazioni, stabilendo un'enigmatica
assimilazione fra il visus mediatico del soggetto e le recondite, intime pulsioni
comportamentali dell'individuo (della rivoluzionaria sovrapposizione ontologica
tra corpo umano e corpo mediatico si avrà un più pregnante esempio
nella scena del talk-show). La valenza paradigmatica della sequenza è
fuor di dubbio: CRONENBERG stabilisce fin d'ora i termini di un discorso che
intende mostrarci l'inarrestabile "tendenza - divenuta poi evidente in
tutto il mondo occidentale - a sussumere il reale sub specie televisiva";
tendenza in questo caso ben rappresentata dall'uso ostentatamente privato e
personale del mezzo comunicativo, che sembra così esautorato della sua
ormai obsoleta natura pubblica e sociale.
Una lenta panoramica laterale introduce pian piano il disordinato ambiente,
sorta di garçonniere postmoderna, in cui vive il protagonista, che, sempre
disteso sul divano, spegne la TV tramite un telecomando nascosto nel palmo della
mano (anticipando ben più eclatanti e letterali innesti uomo-macchina);
l'ultima inquadratura è un primissimo piano di Max, ancora assopito.
Il regista indugia a lungo sul volto addormentato dell'uomo perché lo
stacco alla scena seguente risulti sensibilmente marcato; lo vediamo affaccendarsi
in cucina mentre prepara la sua improbabile colazione.
Più che sull'efficace senso descrittivo del regista - la confusione delle
sue abitudini alimentari è correlativo oggettivo adeguato alla sua confusione
mentale di "divoratore di immagini, un vero e proprio tossicomane della
televisione, prototipo dello yuppie americano" - conviene soffermarsi sulla
conseguenza ambigua dello stacco: l'ellissi della presunta consequenzialità
d'azione incoscienza-risveglio prospetta la possibilità di una visio
per somnum da parte del protagonista di tutte le vicende successive del racconto,
oltreché di un sabotaggio, innescato fin da subito, di tutti i dispositivi
d'ancoraggio dello spettatore verso un punto di vista unificante la narrazione.
La pluralità labirintica dei punti di vista comincia a configurarsi come
fondamento rappresentativo della pellicola, visto che i procedimenti linguistici
adoperati per attuarla saranno sovente ripetuti all'interno del film, condividendo
la fattura stilistica di quelli appena descritti, ma appariranno ben più
riconoscibili e patenti solo grazie all'esemplarità spettacolare d'alcune
scene-chiave nell'ormai avviato flusso narrativo del film.
* * *
Informato, dalla segretaria-TV, di
avere un appuntamento per il possibile acquisto di un serial pornografico giapponese,
Max dà un veloce sguardo a del materiale fotografico gettato alla rinfusa
sul suo tavolo da cucina, probabilmente foto di scena tratte dalla serie in
questione. Mentre le sfoglia, senza manifestare peraltro particolare interesse,
non può fare a meno di macchiarle dei residui rossastri della sua colazione
(traccia spermatica di patologico voyeur? suggestione visiva di contaminazioni
fra organico e inorganico?). L'appuntamento ha luogo in un fatiscente albergo
della città; mentre i produttori insistono perché Max visioni
tutte le puntate del serial in ordine cronologico, questi chiede di sbirciare
solo l'ultima, convinto che, ai suoi spettatori, della storia importi poco o
nulla.
Una volta raggiunta la sede di "Canale 83", Max, in qualità
di direttore di rete, commenta il video insieme a due suoi colleghi che lo giudicano
debole e troppo elegante, per Max è addirittura troppo "
fiacco,
c'è bisogno di qualcosa di forte, che spacchi". La macchina da presa,
spostandosi lentamente dall'inquadratura dei tre, scivola, noi con lei, fin
dentro il televisore che rimanda le immagini di "Samurai Dreams",
blando titolo del serial. Bastano parchi movimenti della macchina da presa,
per generare solidi slittamenti percettivi nello spettatore; in questo caso
la penetrazione dello sguardo all'interno del filmato giapponese (riprodotto
con perizia emulativa d'effetti flou e immagini morbide) e il conseguente controcampo,
coincidente con un "impossibile" sguardo in soggettiva della TV, veicolano
la sottile impressione di un liquido compenetrarsi tra piani di realtà.
Viene da pensare che i personaggi del film siano agiti dalle immagini televisive,
che trovino cioè una loro dimensione funzionale, soltanto quando possono
direttamente interagire con queste; non si esiste, sembra suggerire il regista,
se non si esercita un medium: per adesso sono solo i primi segni di un assorbimento
biunivoco fra consistenza ontologica dell'essere umano e dell'essere TV.
Dall'ufficio di Max ci spostiamo su una terrazza, dove il suo tecnico di fiducia
gli racconta di essere riuscito a captare un segnale che trasmette immagini
di brutale violenza e di sevizie inaudite: il segnale si chiama Videodrome;
Max ne è profondamente affascinato. Le immagini sgranate e sporche del
segnale fanno da pendant col sottile fascino perverso della trasmissione. Il
potere fascinatorio dell'immagine si configura direttamente proporzionale ai
suoi contenuti di sessualità polimorfa: argomento che avremo modo d'affrontare
più consistentemente nel corso della nostra analisi.
* * *
Per descrivere la scena successiva,
quella del talk-show, di suggestiva pregnanza antropologica, ci serviremo dell'intervento
di CANEVACCI, così come riportato nel suo libro Antropologia della comunicazione
visuale: "Uno studio televisivo normale, in attesa di iniziare un dibattito
sulla pornografia, la violenza e le responsabilità del mezzo televisivo.
Max
sta seduto su una poltrona, accavalla le gambe e si accende una sigaretta,
dicendo qualcosa di circostanza sull'emozione che prende sempre nei dibattiti.
Poi si volta per offrire una sigaretta alla sua interlocutrice. Sempre in piano
sequenza, la macchina da presa si sposta alla ricerca della persona fino ad
inquadrare la televisione di scena, dove una bella donna vestita di rosso si
volta verso di lui e dice: "No, grazie". Un successivo stacco di montaggio
mostrerà il set dove la donna vestita di rosso - Nicki (DEBBIE HARRY)
- sta a fianco di Max e della conduttrice. La sequenza dura poco più
di quindici secondi, ma nella sua sintassi e nella sua, per così dire,
antropologia visuale marca una pietra miliare. Segna un passaggio da un tipo
di sentire il cinema ad altre forme della comunicazione visuale. Il mezzo è
ancora lo stesso - il cinema, appunto - ma esso spinge verso qualcosa di totalmente
altro. La donna in rosso rinchiusa nello schermo televisivo si "fa vedere"
secondo un nuovo canone percettivo che sottintende o sollecita una diversa capacità
di decodifica. La sequenza segnala che la sua è una presenza essenzialmente
visuale prima che reale. Il reale - se sopravvive - arriva dopo[
].
Dalla scena
appena descritta si avverte che il regista sta esplorando un
modulo narrativo del tutto nuovo. Una semiotica filmica dove i limiti (o i fili)
tra i codici realistici e i codici visuali tendono a confondersi e, di conseguenza,
a dislocare le abitudini percettive dello spettatore. Ed è il primo a
farlo, con un forte anticipo su un processo che si diffonderà con forza
solo negli anni Novanta: quel gioco di interfacce tra realtà e finzione
che ora si chiama realtà virtuale[
].
Ma sta nel linguaggio visuale espresso da CRONENBERG il vero senso dell'innovazione.
Nella sua antropologia della comunicazione, a partire da questo breve piano
sequenza - segno di una nuova cultura visuale - che il regista riesce non solo
a cogliere in anticipo, ma anche, almeno in parte, a costruire - il rapporto
tra arredo urbano, dialogo tra persone, sistema percettivo, immagini-TV si mescola.
Ciascuno di essi si innesta in tutti gli altri. È la persona-TV che diventa
soggetto. Un "farsi vedere" presente tanto quanto una persona-corpo".
Le conclusioni di CANEVACCI rappresentano un importante passo verso la definizione
di una nuova disciplina interpretativa, un passaggio obbligato, viste le modalità
di trasmissione attuali dei dati visuali, dalla vecchia definizione di antropologia
visuale a quella nuova di antropologia della comunicazione visuale. Prendendo
spunto dalle teorizzazioni formulate a riguardo da MARGARETH MEAD, poi riprese
in sede divulgativo-didattica da SOL WORTH, tale passaggio implica uno spostamento
di prospettive che guardano al materiale antropologico enfatizzandone la sua
natura linguistica all'interno di un processo comunicativo globale, comprendente
non solo l'autore del film ma anche i suoi spettatori e il contesto culturale
entro cui tale comunicazione avviene.
Seguendo tale input si può guardare a Videodrome come ad un saggio antropologico
sulle mutazioni culturali - uno scontro tra natura e cultura, tra corpo e mente
- indotte dalla pervasiva complessità della comunicazione visuale. Un
testo-ibrido, come sembra essere ibrido l'attuale sostrato costitutivo della
comunicazione massmediale che ingloba in un unico magma referenziale diverse
realtà ontologicamente differenziate, ma che finiscono desemantizzate
e ricomposte in un nuovo orizzonte virtuale. Con CRONENBERG non è produttivo
e stimolante, in altre parole, ricorrere ad un approccio antropologico canonico;
è semmai sul metalinguistico che conviene soffermarsi, coinvolgendo nel
progetto la nostra ineluttabile funzione di decodificatori di codici iconici,
per un'indagine visuale che sia quanto più antropologicamente rispondente
alle attuali realtà del "villaggio globale".
La sequenza del talk-show prosegue: al Rena King Show è invitato, oltre
a Max e a Nicki, il professor O'Blivion (JACK CRELEY), novello apostolo dei
media. L'intervento di quest'ultimo è registrato in video, una presenza
quindi puramente virtuale e come tale sembra rendere pertinente il contenuto
predicatorio del suo contributo al dibattito: "Lo schermo televisivo è
l'unico vero occhio della mente umana. O'Blivion non è il mio vero nome,
ma un nome TV. Nient'altro. Presto tutti avranno nomi-TV speciali, nomi studiati
con cura".
Molti hanno citato MARSHALL MCLUHAN come referente ironicamente utilizzato dal
regista per la costruzione del personaggio in questione; ma come non pensare
invece, al di là della riconoscibilità di certi assunti del massmediologo
canadese messi in bocca al professore, alla natura archetipica del concetto
di simulacro su cui ha scritto pagine illuminanti JEAN BAUDRILLARD e a cui dà
corpo in questo caso la figura di O'Blivion. Lontano dal tono velenoso e dal
doloroso rancore delle argomentazioni del filosofo francese contro il degenerare
estetizzante della cultura occidentale, CRONENBERG fa invece del personaggio
del professore un ironico, sebbene allarmante, esempio delle fatali proiezioni
simulacrali, consustanziate alla nuova propensione mediologica dell'essere.
Nonostante la valenza apocalittica delle argomentazioni tirate in ballo da O'Blivion,
Max e Nicki intraprendono un pedestre gioco provocatorio sulla moralità
dell'utilizzo televisivo. Per Max le immagini violente, trasmesse dalla sua
TV, fungono da valvola di sfogo per le frustrazioni e le fantasie represse dalla
società costituita, al che Nicki, interprete di un pensiero ipocritamente
conformista, confessa di sentirsi "costretta a vivere in uno stato di eccitazione
anormale". La replica di Max non si fa attendere: la tendenza alla provocazione
sembra essere endemica nell'individuo, se è vero che la stessa Nicki
indossa un appariscente vestito color rosso fuoco. Alla fine del dibattito Max
invita a cena Nicki, ormai condiscendente al corteggiamento scoperto dell'uomo.
Il sottofondo maschilista dell'intera scena è riscattato da una constatazione
generale ben più profonda ed interessante: non sembra esserci spazio
per una qualsivoglia moralità, all'interno di un universo comunicativo
che tanto più rivela la sua reale natura quanto più agisce sul
rimosso e sul perverso.
Di nuovo con Harlan (PETER DVORSKY), il tecnico della sua TV, Max scopre che
il segnale di Videodrome è emesso da una stazione di Pittsburgh, e non
da un lontano paese orientale come si pensava in un primo momento (il "virus"
infettivo si trova nel cuore del sistema capitalistico delle società
più progredite). Per intanto il fascino delle immagini perverse del programma
comincia ad avere un pericoloso potere ipnotizzante sulla psiche del protagonista.
* * *
Dopo
una breve visita negli studi radiofonici dove lavora Nicki, che ammicca maliziosamente
a Max proprio mentre conversa al telefono con una donna che piange i suoi problemi
personali, cercando una voce amica che la consoli - ennesimo esempio dell'affrancamento
da ogni tipo di valenza morale da parte di chi opera nei media o, per meglio
dire, dell'inevitabile affiorare di una nuova moralità introdotta dalla
comunicazione - i due si recano a casa per visionare le immagini di Videodrome.
La scena della relazione sadomaso che si avrà di lì a poco fra
Max e Nicki prepara alla prima, compiuta, evidente allucinazione del film.
Il tramite dell'allucinazione, del sovvertimento di coscienza è identificato
nel desiderio, in questo caso quello sessuale. L'immagine fa presa sul consenso
intimo dell'individuo di veder reificati e riprodotti su teleschermo i propri
sogni e le proprie ossessioni. La mortificazione del corpo - Max infila uno
spillo nell'orecchio di Nicki - è preludio alla sublimazione elettronica
della "nuova carne". Le modificazioni antropologiche risultanti dal
consumo di immagini TV implicano alterazioni non soltanto comportamentali ma
addirittura corporee. Fuor di metafora, la capacità comunicativa, generata
dai nuovi media, sollecita e plasma nuove modalità di ricezione, differenti
organi di fruizione, inedite esperienze sensoriali, attivazioni sinestetiche
di decodifica.
CRONENBERG inquadra da lontano i corpi nudi dei protagonisti distesi sul letto,
in fondo occhieggia il televisore ancora acceso, inconfessato trompe-l'oeil
verso la vertiginosa zona morta della transmutazione mediatica, poi stacca sul
primo piano di Max, desiderio fattosi agente fisico di violenza, per riattaccare
finalmente sul totale. Ma la composizione dell'inquadratura adesso è
cambiata. Come osserva giustamente GIANNI CANOVA: "
prima i due corpi
stavano su un lenzuolo rosso immerso nel nero circostante, ora al centro dell'immagine
c'è un quadrato nero circondato da una luce color rosso sangue. Come
se si fosse passati da un negativo ad un positivo fotografico, o viceversa".
Max è stato fatalmente fagocitato da Videodrome; attorno a lui c'è
adesso il vuoto della videoarena in cui è costretto a giocare, preda
di una vertigine che gli viene dall'aver perso l'usuale dimensione sensoriale,
le rassicuranti coordinate interpretative della realtà. Si avvicendano
allora, dilatate ed estenuate dal ralenti, varie focalizzazioni: panoramiche
descrittive del narratore, soggettive allucinatorie di Max, sguardi in macchina
del protagonista a sollecitare una risposta metalinguistica da parte dello spettatore;
un montaggio schizoide di registri della visione contrappuntato da un metallico
sospiro, rantolo sintetico ma di ferina sensualità. Tutta la sequenza
è caratterizzata da una "erotizzazione" sinestetica degli elementi
in scena, pare intrinsecamente informata da una diffusa dominante di sensualità
panica. La conseguenza ineluttabile della sequenza descritta ha qualcosa di
radicale: costringere lo stesso spettatore del film a condividere lo sconcerto
e il disorientamento percettivo provato dal protagonista sulla propria pelle.
Una volta scattata la pulsione desiderante dell'agente scopico, le immagini
ne sono inevitabilmente "infettate", rimandando una pseudo-realtà,
che ingloba lo sguardo dello spettatore privandolo di ogni punto di riferimento.
* * *
***
Dopo essere stato in riunione nel suo ufficio con un'anziana produttrice di filmetti soft-core, materiale giudicato troppo poco contemporaneo da Max ("voglio qualcosa che mostri davvero quel che succede sotto le lenzuola") - non c'è mediazione o filtro sensuale che tenga, nell'epoca del consumo immersivo e virtuale dell'entertainment - e dopo averla incaricata di ottenere informazioni particolareggiate su Videodrome, il protagonista ha un veloce colloquio con Nicki, in partenza per Pittsburgh. Il suo tentativo di dissuaderla dal partecipare al misterioso programma non ha nient'altro effetto che quello di eccitarla al tal punto da bruciarsi il seno con una sigaretta: la sua è un'inarrestabile "scorporalizzazione", è carne che si sublima in fumo, improcrastinabile ascesa verso la transustanziazione della vecchia realtà fisica in una nuova eminentemente visuale; il lento fluire di Nicki verso la morte della vecchia carne per quella nuova, estremo rito di passaggio di una società in trasformazione, sta trascinando inesorabilmente con sé anche Max.
* * *
Frattanto, in un ristorante da "mille
e una notte", falso postribolo orientale, dove danzano finte odalische
(luogo che incarna vari simbolismi dell'immaginario esotico-sensuale, moltiplicando
la dialettica falsità/seduzione in infinite fughe prospettiche), Masha
(LYNNE GORMAN), la produttrice incaricata di investigare su Videodrome, avverte
che quello che si vede nel programma è tutto reale - inquietante e letterale
parafrasi della "morte al lavoro" di COCTEAU? - e che la trasmissione
sembra avere "una sua filosofia". Consigliato di contattare il professor
O'Blivion, l'unico che pare in grado di sapere qualcosa di più su Videodrome,
Max si reca nella sede della "Cathode Ray Mission", sorta di organizzazione
umanitaria ed assistenzialista fondata dalla figlia dell'accademico. L'enigmatica
Bianca O'Blivion (SONJA SMITS) lo introduce in un ambiente dove innumerevoli
homeless e drop-out, ognuno all'interno del suo séparé, guardano
la TV, sperando di curarsi da una malattia per insufficiente uso della televisione.
La visionarietà della scena riecheggia qualcosa delle atmosfere cyberpunk,
tutta una letteratura che ha visto il nostro prossimo futuro determinato dalla
presenza immane della tecnologia, capace di modificare il paesaggio esteriore
come quello interiore dell'uomo. In tal senso come non pensare ai nuovi landscape
metropolitani creati dalla fervida fantasia del JAMES GRAHAM BALLARD di The
Atrocity Exibition (La mostra delle atrocità, 1970) o del WILLIAM GIBSON
di Neuromancer (Neuromante, 1984), inquietanti e necessarie perlustrazioni sulla
nuova consistenza cibernetica dello scenario-uomo? C'è un intero filone
che, facendo proprie le elaborazioni sull'inner space introdotte da BALLARD
e dalla new-wave anglosassone, traccia un solco referenziale di estrema fertilità.
Una fantascienza "interiore", i cui paesaggi e le cui ambientazioni
sembrano riflettere, esternandoli, le sconvolgenti dimensioni intime, le profondità
archetipe dell'uomo, di cui la tecnologia e gli spazi esterni paiono una sorta
di proiezione simbiotica, una estensione strutturale. Una tecnologia di configurazione
ergonomica all'interno di un panorama dalle propaggini antropomorfiche. Lo stacco
dalle narrazioni siderali, dalle descrizioni di viaggi interstellari della science-fiction
classica, impegnata a descrivere la conquista "frontieristica" di
altri mondi, l'ottimistica interazione con esseri alieni o le paranoie degli
incontri ravvicinati, non potrebbe essere più marcato. L'unica vera frontiera,
il vero alieno con cui confrontarsi è l'essere umano, con gli abissali
recessi della sua mente, i misteri del suo corpo in mutazione, la sua "naturale"
inclinazione verso la macchina, il bisogno irrefrenabile di un'interattività
orgiastica e multi-organica con la téchne.
Dalla letteratura alla teoria antropologica il passo è breve: MARSHALL
SAHLINS prospetta rilevanti e significative dinamiche fra paesaggio ed elaborazione
culturale, concludendo assiomaticamente il suo studio con l'idea che "la
cultura stabilisce il suo ambiente"; è partendo da presupposti coincidenti
che SHARON ZUKIN sottolinea la stretta relazione egemonica che si va costantemente
instaurando tra cultura visuale e nuovi panorami metropolitani: le architetture
di città come Miami. Las Vegas o Los Angeles, turgide di cartelloni pubblicitari
incorporati agli edifici, di maxi-schermi che diffondono incessantemente scenari
virtuali sovrapponentesi a quelli reali, fino all'esempio estremo dei theme-park
disneyiani, immaginario consumistico organizzato in agglomerato urbano, sono
tutte costruite sul potere del dreamscape, un panorama esplicitamente prodotto
per il consumo visuale. Rappresentano vale a dire lo scenario ideale della postmodernità
e, nello stesso tempo, il contesto dove, con maggior forza, è possibile
vedere concretamente l'efficacia dei nuovi processi comunicativi. La compenetrazione
fra Videoscape (visione di un paesaggio urbano sintetizzato e miscelato nei
media) e Visualscape (rappresentazione architettonico-funzionale della città
mutuata da codici estetici) è quanto mai totale.
Le strutture urbane di certe città nordamericane contemporanee sono una
stratificazione plurima di feticci visuali e come tali vengono introiettate
da CRONENBERG, che se ne serve vedendole come un'eccellente riserva semiotica.
In tutta la sua filmografia, il regista canadese ha sempre inscritto le sue
storie all'interno di cornici metropolitane ben definite; nei suoi primi lungometraggi
Toronto è utilizzata come sfondo alienante ed oppressivo, correlativo
architettonico della rigidezza istituzionale della società, elemento
castratore delle pulsioni sotterranee ed eversive dell'individuo (Stereo, The
Parasite Murders, Rabid); poi, abbandonando l'utilizzo di scenografie naturali,
progetta spazi e mondi che, anche se immaginari e ricostruiti, paradossalmente
acquistano in verosimiglianza antropologica.
Tutti gli ambienti della "Cathode Ray Mission" sono in questo senso
esemplari di un modo di guardare all'arredo urbano come ad una dinamica interfaccia
fra il reale e l'immaginario, un eccellente riflesso espressivo di una prossemica
filmica che esplora le numerose variazioni configurazionali che legano l'uomo
contemporaneo alle sue ambienze pseudo-virtuali. Se nel cinema di fantascienza
degli ultimi anni si sono visti numerosi modelli di possibili landscape della
futuribile civiltà cibernetica - Blade Runner e Brazil (id., 1985) fondano
gran parte della loro suggestione visiva sulla spettacolare complessità
del proprio impianto scenografico - in Videodrome la costruzione del décor
risponde a criteri più marcatamente metalinguistici, non connotandosi
mai come mero sfondo dell'azione, bensì innescando sottili rispondenze
ed interazioni con i personaggi che vi partecipano.
La sequenza descritta più sopra, ad esempio, bene esprime il carattere
"globalizzante" e a mosaico dell'esperienza mediale, "la grande
tavolozza del mondo" in cui tutto confluisce una volta che si è
entrati a far parte della rete comunicativa, oltre a suggerire inequivocabilmente
la totale aderenza fra la produzione culturale e simbolica della società
attuale e la sua conseguente, immediata, quasi sincrona immissione nelle elaborazioni
architettonico-ambientali.
* * *
Ottenuta la promessa, da parte di
Bianca, di una cassetta videoregistrata contenente un intervento in video del
professore che parla di Videodrome - il video essendo il suo unico mezzo di
comunicazione, dal momento che si rifiuta da anni di conversare con chicchessia
("Il monologo è l'unico tipo di discorso che lui sa fare")
- Max se ne ritorna al suo appartamento. E' qui che la sua segretaria, che per
un attimo gli appare sotto le sembianze di Nicki, ipostasi delirante della pulsione
di morte, miraggio psichedelico che annuncia l'attuata compenetrazione del virtuale
sul reale, gli consegna la cassetta di O'Blivion. Cassetta che pulsa e si gonfia,
come cosa animata, corpo desiderante e sensuale che chiede di essere inserito
nel videoregistratore per un coito elettronico: è l'avvenuta corporeizzazione
dei massmedia, la fase aurorale della simbiosi fra l'organico ed il tecnologico
attuata per mezzo del potere metamorfizzante della comunicazione visuale.
Ormai in preda ad un vero delirio allucinatorio, Max si sistema per visionare
la cassetta. Il monologo di O'Blivion può avere inizio: "La lotta
per il possesso delle menti in America dovrà essere combattuta in una
videoarena, col Videodrome. Lo schermo televisivo è ormai il vero unico
occhio dell'uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della
struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà
e la realtà è meno della televisione". Monologo che si trasforma
ben presto, seguendo un procedimento che abbiamo avuto già modo di analizzare
nella prima scena del film, in un dialogo virtuale con Max.
Il professore racconta che è preda di video-allucinazioni più
reali della realtà, che Videodrome gli ha procurato un terribile tumore
al cervello e che Max sta condividendo la sua stessa esperienza. Mentre si rivolge
direttamente al protagonista, O'Blivion è strangolato in diretta da una
figura incappucciata, che si rivela essere Nicki, oramai diventata un tutt'uno
con Videodrome, del quale rappresenta il lato sensualmente intrigante e provocatoriamente
fascinatorio: "Vogliamo te, Max! Vieni da me!"
E' solamente l'incipit della sequenza più celebrata e analizzata dell'intero
film; una probabile scena madre dell'intero universo cinematografico cronenberghiano.
Vi confluiscono i temi della mutazione e del fascino mistificante e spiraliforme
dell'immagine, la corporeizzazione dell'inorganico, l'intreccio indissolubile
dell'umano e del tecnologico, la deriva semantica di segni eterogenei inglobati
in nuovo immaginario. La visualizzazione spettacolare di tali suggestioni è
condotta con distacco ironico e straniata partecipazione. CRONENBERG si limita
a mettere in scena uno dei tanti slittamenti del possibile nella società
delle immagini.
Il primo piano delle labbra di Nicki occupa tutto lo schermo televisivo, l'intero
apparecchio si gonfia protendendosi verso l'esterno. Max inserisce la sua testa-fallo
nello schermo TV-vagina, l'irresistibile amplesso elettro-biologico segna il
definitivo ingresso del protagonista in un universo contiguo al reale, fatto
di sessualità multi-organica e visionarietà diffusa. Tutte le
funzioni dei sensi umani sono al servizio della riproduzione mediatica in un
incessante accoppiamento di realtà difformi. In un certo senso è
come se CRONENBERG attualizzasse FREUD calandolo nella multimedialità
e così rendendolo uno stimolante e produttivo punto di riferimento teorico
per le sconvolgenti eterotopie corporee del nuovo uomo-TV, radicalmente condizionato
in tutte le sue espressioni dalla sessualità polimorfa ed avvolgente
del flusso comunicativo. Quanto al sostrato estetico della sequenza, esso richiama
le forme più radicali dell'arte moderna, dal movimento cyberpunk fino
alle avanguardie visive - MAN RAY, FRANCIS BACON, ANDY WARHOL - palesemente
nutritosi in precedenza di suggestioni situazioniste - La société
du spectacle (La società dello spettacolo, 1967) di GUY DEBORD. Un'arte
che è capace di sporcarsi, utilizzando materiali "bassi" e
peregrini, rinunciando al proprio storico statuto di dispositivo metaforico
e sublimante della realtà.
JAMESON, riferendosi ad un fenomeno estetico-culturale, fondante l'attuale società
postmoderna, saturata com'è da segni e immagini, ha coniato, con spirito
beffardo ma terminologia appropriata, il neologismo signflation per significare
una decadente inflazione e proliferazione semiologica che cosparge ormai l'intero
tessuto comunicativo. Oltre alle discipline filosofiche, anche l'attuale antropologia
sta riflettendo su tale fenomeno che pare essere in costante aumento: il processo
di desimbolizzazione della cultura. Nel simbolo permane l'idea che rimanda a
qualcos'altro tramite l'analogia, la metafora, l'allegoria. Un processo di ricongiungimento
con una totalità perduta. Uno spostamento che riunifica il segno ad un
concetto astratto. Nella società attuale questa dimensione spaziale si
è frantumata. Il simbolo si unisce immediatamente alla cosa, il segno
all'atto.
STANLEY DIAMOND, in un saggio di antropologia linguistica con implicazioni che
si riverberano facilmente anche nel campo dell'estetica, ha scritto: "nella
nostra società, i simboli collassano in segni, in quanto impoveriti nel
linguaggio di ogni giorno". Il significante acquista automaticamente la
dimensione di significato. Anche l'arte risente di questo stato di cose, rinunciando
al suo offuscato apparato di obsolete figure retoriche. L'intento metaforico
dell'artista è come prosciugato dall'immanenza diffusa dei segni. CRONENBERG,
tramite la penetrazione dell'uomo nello schermo catodico, non allegorizza, non
allude ad un superiore livello di riferimento, ma si limita a mostrare in tutta
la sua consistenza fenomenologica una potenziale combinazione del reale che
è già in atto. Videodrome è il grado zero della metafora,
poiché tutti i segni del film non rimandano ad altro che a se stessi.
Stilizzazione configurazionale di un inevitabile prolungamento del possibile.
Un possibile che prevede come sua rappresentazione l'accostamento disordinato
di segni appartenenti ad aree fra loro eterogenee, sviluppando un coacervo desemantizzato
di meri significanti.
Ma più che servirsi direttamente di un approccio filosofico-interpretativo
di carattere semiologico, più che richiamarsi, in sostanza, alle formulazioni
di un onnipresente BARTHES, a CRONENBERG interessa sia l'effetto istantaneo
del segno, la sua imprevedibilità semantica, il suo essere poliforme,
la sua capacità di accumularsi indifferentemente con altri materiali,
generando inquietanti sovrapposizioni ontologiche sia, più in generale,
la natura mutagena del visuale, il processo di inedita incorporazione sensoriale,
e quindi di interpretazione critica, dello spettatore rispetto al medium, con
effetti sconvolgenti proprio sul piano della fruizione.
Sì è già fatto cenno alla tendenza cronenberghiana di corporeizzare
il tecnologico, ma le attuali modalità di sviluppo della comunicazione
visuale suggeriscono a CRONENBERG di spingersi ancora più in là,
di tentare, con una proposta artistica di straordinaria efficacia, una pan-corporeizzazione
dell'inorganico, di far partecipare l'arredo urbano, le merci, il visuale alla
stessa dimensione individualistica dell'essere biologico, una "feticizzazione"
del mondo generata da un'avviluppante rete massmediale e regolata secondo i
principi di una nuova economia di scambio. Una rete che è definita da
parametri economici del tutto nuovi, per analizzare i quali è condivisibile
il ricorso a teorizzazioni multidisciplinari in cui la figura della merce visuale
travalichi l'opaca e prosaica definizione di semplice materiale di scambio per
raggiungere una inedita configurazione di soggetto biografico, di fantasmatico
feticcio biologico.
Non ci sorprende più di tanto che, una volta fatto finalmente entrare
da Bianca nell'ufficio di O'Blivion, Max scopra la dimensione puramente mediatica
del professore, ucciso dal tumore allucinatorio di Videodrome, ma vivente grazie
alle videoregistrazioni dei suoi discorsi, conservate in cassette VCR, riprogrammabili
all'infinito e perciò utilizzabili per ogni evenienza. È il tramonto
definitivo del cursus biologico dell'individuo; la morte trova il suo annullamento
nella riproducibilità coatta operata dal mezzo TV, che tramuta l'immanenza
dell'essere in puro spiritus visivo, un'essenza dispiegata iperbolicamente in
tanti video-messaggi, quante sono le possibilità funzionali degli stessi,
un'eterna emissione di monologhi pre-registrati pronti ad essere utilizzati
come se ci si trovasse di fronte ad un'ininterrotta diretta TV. Le coordinate
spazio-temporali vengono piegate alla natura ubiqua e transeunte dell'emittenza
televisiva.
Ecco allora che lo studio del professore, visto come una riserva inesauribile
di simboli artistico-religiosi inflazionati e mortuari - una dimensione funerea
che trova l'acme nel proibito sancta-sanctorum in cui, a mo' di urne funerarie
delle chiese shintoiste, sono raccolte le testimonianze solipsistiche del professore
- rappresenta un valido parallelo scenografico con l'insospettabile côté
metafisico assunto dalla natura cultuale e "mistica" della comunicazione
visuale, esempio di religione laica che si diffonde tramite inediti ritualismi,
i cui nuovi adepti sono i condiscendenti fruitori dell'immagine televisiva.
Lo stretto rapporto fra nuove tecnologie e forme di religiosità originali
è tema à la page - esempio celebre il libro del fisico FRITJOF
CAPRA The Tao of Physics (Il tao della fisica, 1975), prototipo, sotto forma
di saggio divulgativo, di un sentire che sfocerà nell'indistinto fenomeno
new-age, spiritualizzazione d'accatto dei fondamenti religioso-consumistici
del mondo attuale - oltreché di stretta attualità, vista la crescente
invadenza delle cosiddette chiese catodiche, che si servono di strategie retoriche
desunte dai mezzi di comunicazione di massa, per invadere quante più
frequenze possibili con le loro prediche TV. Pratica che è produttiva
ed efficace - c'è il beneplacito di una comprovata rispondenza statistica
- oltreché estremamente diffusa, soprattutto in Usa e in alcuni paesi
latino-americani, ed attuata principalmente da parte di certe confessioni protestanti,
specie quelle evangeliche.
Marco Rambaldi
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