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La leggenda degli uomini straordinari
(Germania, Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Usa 2003) di Stephen Norrington
con Sean Connery, Naseeruddin Shah, Peta Wilson, Tony Curran, Stuart Townsend
Se esiste uno specifico del racconto d'avventura
è quello di fornire, seppure in un contesto domestico, l'esotico.
E' una condizione minima e necessaria, realizzata, rintracciando e defininendo
il genius loci dell'altrove. Cosa che si configura necessaria pure nelle
pellicole minori, si pensi, per fare solo un esempio, al sapore chicchissimo
e convincente della Cortina fine anni Settanta dello 007 di un Solo
per i tuoi occhi. Ma oggi, nell'epoca della riproducibilità
digitale di ogni luogo, non resta che sancire inevitabilmente la fine,
nel sistema produttivo del cinema contemporaneo, dell'avventura. Il cinema
cioè non sa più realizzare nel suo sguardo, filologicamente,
l'altro luogo, riuscendo a disegnare, come unico altrove, i piani alieni
e definitivamente altri dei software di animazione 3d di Silicon Valley.
Non fa eccezione questo La leggenda degli uomini straordinari
che pure soffre della regia pettinatissima di Stephen Norrington.
Eppure, la graphic novel da cui è tratta (una bella storia
dal genio narrativo di Alan Moore e dal tratto chiaro di quel Kevin
ONeill già suo sodale ai tempi de La
vera storia di Jack lo squartatore) è un piccolo capolavoro
di tardo postmoderno. Sorta de I Vendicatori marveliano, ma formato intellettuale,
la vicenda vede un gruppo di personaggi della letteratura ottocentesca
di lingua inglese impegnato contro le abiette trame di Fantom,
già turpe villain della saga sherlockholmsiana.
Il tipo vuole conquistare il mondo - e questo per un cattivo che si rispetti,
resta l'obiettivo minimo - ma l'Impero britannico non può proprio
permetterglielo. E così i Servizi di Sua Maestà, grazie
all'efficiente M (che, come vi direbbe Bond, James Bond viene,
in ogni senso, letteralmente prima di Q), reclutato Allan Quatermain,
l'eroe coloniale di Haggard, lo pongono a capo di un piccolo esercito
formato dal pittoresco capitan Nemo di Jules Verne, una
sanguigna Mina Harker, tenebrosa fanciulla che il buon Stoker
consegnava all'amore e alla dannazione eterni del suo Dracula,
un incolore uomo invisibile di H. G. Wells e un efficiente dottor
Jeckyll il cui Mr. Hyde più che a Stevenson deve
tutto alla mostruosa baldanza dell'incredibile Hulk. Obiettivo:
fermare le mire di conquista di Fantom e, nell'immediato, bloccare
uno straordinario attentato dinamidardo che distruggerebbe Venezia.
La sceneggiatura di James Robinson, rispetto al fumetto, aggiunge,
e come veri aghi della bilancia della vicenda, da una parte il Tom
Sawyer di Mark Twain e dall'altra Dorian Gray dell'omonimo
ritratto di Wilde: il primo in funzione di una stilizzatissima
e immacolata rettitudine solo venata dall'irruenza della gioventù,
(nel film l'episodio metaforico del prendere la mira col fucile), il secondo
per dirci di quanto - vai con l'originalità - l'apparenza inganni.
E già qui il film rivelerebbe la sua sconcertante banalità
se non fosse che (il peggio non conosce il tonfo del fondo) il racconto,
da inequivolabile segnale di una rinnovata tentazione coloniale post 11
settembre, ha il tempo di raggelarci, nel prefinale, con una frase del
morente Quatermain che rivolto al giovane Sawyer, suo figlio
putativo, gli si congeda, e con lui dal mondo, augurandogli che il nuovo
secolo (la storia scorre nel 1899) possa vedere protagonista il giovane
americano come il vecchio aveva visto lui. Passaggio del testimone tra
Impero britannico e la nuova potenza coloniale statunitense nel quale
il sottile pastiche architettato da Alan Moore diventa un indifendibile
pasticcio.
(Corrado Morra)
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