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La guerra dei mondi (Usa 2005) di Steven Spielberg con Tom Cruise, Dakota Fanning, Tim Robbins, Miranda Otto, Justin Chatwin

Usando a mo' di palinsesto la materia romanzesca di H.G. Wells e mutuando dalla geniale smargiassata radiofonica di Welles e Koch la dinamica pretestuale dell'esercizio manipolatorio (far irrompere il perturbante nella medietas suburbana per una anamnesi dei viluppi paranoidi che attanagliano la borghesia americana), Spielberg licenzia con La Guerra dei mondi un'opera squilibrata e compromessa, affascinante e ambiziosa ma al tempo stesso banale ed anonima, capace di momenti di potente suggestione visionaria come di imbarazzanti concessioni alla spettacolarità più vieta e derivativa. Notevole e persino preziosa è tutta la prima parte che coincide con l'agile tratteggio dei protagonisti, l'efficace disegno dell'ambiente, il profilarsi terrorizzante degli alieni, la repentina fuga della famiglia con stagliato sullo sfondo il drammatico esodo di una umanità sconvolta e incarognita. Fin quando cioè Spielberg sceglie di interpretare la diegesi fantascientifica concentrandosi sulla microstoria dei Ferrier, lasciando quasi in secondo piano le peripezie catastrofiche, si assiste, complice una messinscena esemplare per tensione emotiva e controllo espressivo, a brani di cinema che riscattano l'ingenuità del plot e delle sue figurazioni (lo scatenarsi di improbabili fenomeni elettromagnetici e poi l'emersione dei tripodi insettiformi) voltandoli in poderosi catalizzatori vuoi di paure archetipe (le forze elementali che annunciano il prodigio o l'arrivo della minaccia dal cielo ipostatizzata invece in terrore ctonio) vuoi di traumi epocali (gli agganci metaforici all'iconografia post 9/11, la nevrosi xenofoba, il senso di catastrofe imminente). È una sorta di sublimazione del materiale letterario di partenza, un aggiornamento azzeccato delle sue inferenze politico-apologetiche risolto con freschezza di visione e corposa densità stilistica. Si assiste, solo per virtù di padronanza registica, e segnatamente negli episodi di panico o di morte, piuttosto che negli sterili intermezzi dialogici o nelle fiacche pause di approfondimento psicologico di uno script abborracciato, a sequenze di squisita fattura tecnica - nella concezione e nell'esecuzione di quelli che gli anglofoni con felice espressione icastica chiamano set-pieces pochi in assoluto possono stare alla pari con Spielberg – a pagine degne del magistero affabulatorio di un autore che ha allargato il vocabolario filmico del fantastique. Di più, le scelte cromatiche di J. Kaminski, l’economia espressiva nell’utilizzo degli effetti visuali, la ruvida immediatezza della macchina a mano immergono lo spettatore in un flusso audiovisivo convulso e pervasivo, con quella maniera iperrealista di raccontare lo straordinario che sembra indicare nuove strade per la spettacolarità mainstream. È come se, ormai più incline all’affresco sociale, più a suo agio con le ottiche desaturate e mosse alla Schindler’s List o alla Salvate il soldato Ryan, più desideroso di descrivere il caos della Storia piuttosto che quello della fantasia o del mito come in Duel o Lo Squalo, Spielberg intendesse infondere diverso spessore prospettico all’impianto naïf di questo B-movie miliardario.
Ma poi, magari con le avvisaglie di iperboli effettistiche di dubbio gusto (la scena sulla collina) o di personaggi che con il progredire della narrazione acquistano in tonalità stereotipe, quanto di buono si era visto fino ad allora si sfalda, lentamente ma inesorabilmente, per le incertezze e la convenzionalità di una sceneggiatura che annacqua ed annulla le suggestioni narratologiche, e anche quelle politiche, dello scontro generazional-ideologico tra padre (Tom Cruise) e figlio (Justin Chatwin), fino a collassare per colpa di grossolani abbagli registici e stanche soluzioni visive: l’apparizione del personaggio interpretato da Tim Robbins, la reclusione nella cantina-rifugio, l’agnizione dei malvagi ET, il rapimento della piccola Rachel (Dakota Fanning) e la fuga dal ventre del tripode. Una mezz’ora pregna di ostentazioni virtuosistiche, di eccessi banalizzanti, di soluzioni scenografiche e luministiche grossolane, di chiassosi e volgari rimandi non solo allo Spielberg più antonomastico (la sequenza del gioco al gatto col topo col tentacolo-sonda è un calco pedissequo di quella con i raptor nella cucina di Jurassic Park) ma anche a troppo facili referenti di genere (Aliens, The Abyss, Signs, per tacere dei più ovvi e modaioli).
Piuttosto che affannarsi quindi a sbeffeggiare l’inverosimile ricongiungimento finale tra padre e figlio, accusato dalla critica di candire inopinatamente il tono oscuro e apocalittico dell’assunto (uno scioglimento comunque meno consolatorio di quanto si voglia far credere, con quel padre che rimane ostinatamente lontano dall’uscio, e con quel abbraccio che, con qualcosa del colorismo western, sa più di amicizia virile che di affetto parentale) ci si deve rammaricare di come Spielberg abbia dissipato e fagocitato, soprattutto con quella mezz’ora claustrofobica e posticcia, frutto di stordimento e confusione espressiva, l’esemplare dimensione spettacolare, l’originalità delle trovate stilistiche e dell’approccio figurativo visto in “soggettiva”, la tenuta drammatica e il pathos luttuoso negli squarci di smarrimento collettivo, l’ariosità epica del racconto, la ricchezza delle suggestioni plastiche, il fascino degli incastri metalinguistici.
Proprio per questo La Guerra dei mondi è senz’altro l’episodio più irrisolto e straniante della filmografia spielberghiana, quello strutturalmente più sciatto. A dar retta all’adagio surrealista bisognerebbe salvare del film quasi tutta la prima ora, isolandone i momenti più originali e ispirati, contemplando la raffinatezza di quel lungo segmento e immaginando magari l’opera che avrebbe potuto scaturirne. Ma abituati al culto dell’ideale armonico ellenico e plasmati dall’eredità epistemologica cartesiana non si può non uscire dal cinema con la forte sensazione di una preziosa occasione mitopoietica, gettata miseramente al vento.

(Marco Rambaldi)

 

Leggi la recensione de La Guerra dei mondi del 1953

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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