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Gostanza da Libbiano (Italia 2000) di Paolo Benvenuti, con Lucia Poli, Valentino Davanzati, Renzo Cerrat, Paolo Spaziani, Lele Biagi, Nadia Capocchini, Teresa Soldaini

GOSTANZA DA LIBBIANO NELL'INTERPRETAZIONE DEL REGISTA

Lo scorso 8 agosto a Perugia è avvenuta una delle poche proiezioni del film Gostanza da Libbiano; ad essa ha partecipato anche il regista, il toscano Paolo Benvenuti, solitario ricercatore di un linguaggio cinematografico ascetico, lento e profondo.
Il film illustra il processo inquisitorio, realmente tenutosi a San Miniato alla fine del Cinquecento, contro tale Gostanza da Libbiano, guaritrice che fa uso dei metodi della medicina naturale tradizionale, accusata di lanciare malefici con l'aiuto delle potenze infere. La dialettica tra torture, confessioni vere e false, ritrattazioni e ricatti psicologici porta ad una serie di ribaltamenti di prospettiva, durante i quali l'identità della protagonista si derealizza sempre di più, finché ella assume i connotati di una figura insolubilmente enigmatica, metà angelo benefattore e metà demonio perverso, sospesa tra l'accettazione della propria condizione di vittima e l'orgoglio di ribellarsi titanicamente ai canoni ideologici della società e del potere. Ma nessuno dei due atteggiamenti sortisce alcun effetto nel procedimento strettamente teologico-razionalistico a cui il giudice inquisitore si rifà per decidere il destino della sventurata. Infatti, poiché Gostanza ha raccontato di essere stata oggetto delle attenzioni amorose di un bellissimo Satana in una favolosa città d'oro, e poiché secondo la teologia tutto ciò è impossibile, l'inquisitore smentisce le stesse ripetute e dettagliate confessioni della donna e la condanna ad allontanarsi dal suo paese e a non esercitare più il mestiere di guaritrice.
Alla proiezione perugina del film il regista ha offerto alla platea spunti interessanti per l'inquadramento della sua poetica, anche se in fin dei conti alcune delle sue affermazioni hanno riconfermato la regola per cui un autore con la maiuscola (quale Benvenuti indubbiamente è) ama motivare solo tangenzialmente le ragioni autentiche delle proprie scelte artistiche, forse per pudore nei confronti del proprio processo creativo, o forse perché di fronte a certe domande sarebbero molte le cose da dire e uno che deve analizzare se stesso può non avere voglia di dirle o può facilmente prendere vie traverse, in particolare se è uno che ama le risposte nette e definite come Benvenuti.
Il cineasta toscano ha spiegato innanzitutto che Gostanza fa parte di una trilogia che comprende i precedenti Confortorio (1992) e Il bacio di Giuda (1988). La trilogia gravita intorno a quest'ultimo, e intende mettere in evidenza il contrasto tra due aspetti fondamentali della vita e del messaggio di Cristo, ossia il fatto di essere ebreo e di rivalutare il ruolo della donna dopo secoli di sottomissione, e le successive scelte politiche della Chiesa, la quale, avendo bisogno, da tipica struttura di potere, di individuare dei nemici, li ha individuati proprio negli ebrei (protagonisti di Confortorio) e nelle donne. Gostanza dunque costituisce una denuncia di come il potere religioso schiacci la componente femminile della società, tuttavia la tesi di fondo non è predominante sull'elemento visivo.
Al contrario, il film presenta un'attenzione estrema all'estetica, ad un'estetica di origine sia squisitamente cinematografica che fotografica: le inquadrature sono poche ma studiate al millimetro nella loro geometria evocativa, fatta di scenografie essenziali dall'equilibrio rinascimentale, pochi e lievi movimenti di macchina, intensi contrasti di luce, cupe e sghembe sagome d'ombra, chiaroscuri (il film è in bianco e nero). La lunghezza di alcune riprese fisse può a volte appesantire il racconto (in special modo in un caso, un primo piano obliquo posto giustamente al centro del film), ma a tale rischio funge da contraltare il volto visceralmente calato nel ruolo della grande attrice teatrale Lucia Poli, senza la quale, per stessa ammissione del regista, Gostanza probabilmente non sarebbe stato realizzato.
Riguardo alla questione della sua ricerca visiva, Benvenuti si è inoltrato in una specie di circolo contraddittorio. Egli ha esordito definendo se stesso un pittore che, ad un certo punto, ha riposto tela e pennelli ed ha adottato la macchina da presa. Per questo film Benvenuti e Di Marcantonio, il suo ottimo direttore della fotografia, hanno effettuato uno scrupoloso studio della pittura tardo-rinascimentale e manierista, in particolare di quella del Bronzino, anche per calare le vicende narrate nell'iconografia del proprio tempo. Per sua ammissione, Benvenuti opera nella prospettiva di una riscoperta del "cinema come inquadratura", in controtendenza rispetto al cinema di oggi, che nella frammentazione e nella pioggia delle sue angolazioni di ripresa rinnega il ruolo che in esso svolge la figuratività. Quando però uno degli spettatori ha chiesto al regista perché avesse scelto il bianco e nero, contravvenendo quindi in parte alla sua vocazione pittorica, egli ha risposto che la scelta sarebbe stata dettata dalla volontà di minimizzare il peso delle immagini rispetto alle parole della protagonista, la quale, con il racconto delle sue (presunte) malefatte e soprattutto dei suoi viaggi nella città del diavolo, deve accendere nella maniera più intensa le potenzialità immaginifiche degli spettatori. Poiché questa prospettiva fiabesca è riservata al solo livello verbale del film, immagini caratterizzate da colori troppo vividi e, in generale, da un'estetica sovrabbondante avrebbero distratto gli spettatori dall'ascolto, ha affermato Benvenuti.
Non c'è dubbio che i dialoghi siano stati oggetto di grande cura da parte degli sceneggiatori (S. Bacci, G. Benvenuti, M. Cereghino), che hanno preso a modello sia gli antichi resoconti sulla stregoneria, sia la figura romantica di Satana quale giovane bello e seduttore (secondo l'immaginario fondato da Milton e Byron, tanto per intenderci). Dal punto di vista specificamente filologico, la lingua parlata nel film è improntata ad un'efficace dimensione cinquecentesca (anche se meno rigorosa rispetto a quella dell'olmiano Mestiere delle armi). La voce della Poli, infine, con la sua vasta gamma di modulazioni degna delle più diaboliche performance di Diamanda Galas, compie autonomamente degli ampi arpeggi sulle corde emotive degli spettatori. Nulla da ribattere, insomma, sulla rilevanza del racconto uditivo, ma nel momento in cui Benvenuti sostiene che il suo bianco e nero abbasserebbe il tono delle sue immagini fino a metterle tra parentesi, diventa poco credibile. È un'auto-interpretazione riduttiva sia rispetto al parallelismo cinema-pittura enunciato da Benvenuti come suo imprescindibile taglio artistico, sia rispetto a ciò che tutti gli spettatori possono ammirare, con piena evidenza, sullo schermo: squarci di pura e scultorea bellezza, che sottolineano ed arricchiscono le parole della protagonista, quando addirittura non le sovrastano.
A me sembra che Benvenuti sia stato reticente sull'innegabile gusto del lugubre che permea Gostanza e che giustifica in maniera più ragionevole il ricorso al bianco e nero. Lo stesso desiderio di non mostrarsi attratto dal lato oscuro e gotico della rappresentazione artistica è emerso quando ha motivato gli effetti audio dello scricchiolio delle ossa dopo le torture, tanto efficaci e sgradevoli da mettere i brividi, come una conseguenza involontaria e inevitabile della presa diretta (!). Gli stessi episodi erotico-satanici evocati da Gostanza possiedono un compiacimento che parla chiaro sul versante più morboso e in ombra della sensibilità di Benvenuti, la cui ispirazione è meno limpida, pulita e razionale di quanto egli stesso voglia farla apparire. Non è casuale, inoltre, che il film sia tutto incuneato nelle più piccole e claustrofobiche stanze del castello di San Miniato, nei suoi cupi sotterranei, tra le sue grate, i suoi archi, i suoi assorti affreschi.
E' difficile non scorgere nel film la tensione espressiva verso un'angosciante atmosfera di tenebra, correlativo oggettivo, da un lato, della crudeltà torturatrice assurdamente messa in pratica dagli ecclesiastici in nome di Dio e dell'istituzione religiosa, dall'altro lato del misticismo nero, perverso e carnale della protagonista. In sostanza, il bianco e nero infonde al clima del film un'anima inquieta e misteriosa, fino a conferire alle immagini un simbolismo per il quale sullo schermo, a livello iconico oltre che tematico, si scontrano, si intersecano e si amalgamano (tramite i plastici chiaroscuri) i concetti di colpa ed innocenza, bene e male, verità e menzogna, conformità morale e dissolutezza, ecc. Questa chiave di lettura ci permette di concepire i personaggi di Gostanza come figure intagliate nel marmo, bassorilievi immortalati sull'antica lapide ancora intatta di uno spettrale cimitero di campagna, e impegnati a rappresentare un apologo senza tempo: tutti i lungometraggi di Benvenuti infatti, e non soltanto questo, utilizzano la storia in senso sovrastorico.
Il cineasta toscano ha vagliato un gran numero di documenti giuridici relativi ai processi alle streghe nell'età moderna, prima di mettersi a scrivere la sceneggiatura di Gostanza. La domanda intorno al perché egli abbia optato per un processo che si risolve con la parziale assoluzione dell'imputata, e non con la sua condanna al rogo o alle carceri, ha dato la possibilità a Benvenuti di chiarire ulteriormente la struttura semantica del film. Egli ha risposto che il caso di Gostanza da Libbiano possiede un emblematico valore storico, dato che i processi istruiti dall'Inquisizione, a differenza di ciò che la vulgata fa credere, per la maggior parte si conclusero con il rilascio delle presunte streghe (Benvenuti ha anche aggiunto un'affermazione che ha spiazzato il pubblico, il fatto che i processi dell'Inquisizione furono condotti con una razionalità e un rigore giuridico che ancora oggi dovrebbero essere presi a modello). Il confronto tra gli atteggiamenti degli accusatori e quelli del giudice (il gelido padre Costacciaro) rivela, secondo Benvenuti, il passaggio da un'epoca storico-culturale ad un'altra: mentre i primi, spietati nell'infliggere a Gostanza il tormento fisico ma infondo mossi dal desiderio di salvare l'anima della strega, sono gli ultimi esponenti della "calda" mentalità medievale, il secondo si disinteressa completamente dei problemi dell'anima e della salvezza, ed esprime una sentenza tesa a negare l'identità di Gostanza. Padre Costacciaro, quindi, rappresenta il tipico fondatore della società moderna, che assolve il peccato ma fa in modo che il peccatore non possa destabilizzare l'istituzione politico-religiosa. Gostanza, dunque, non è condannata a morire fisicamente tra le fiamme, ma a morire spiritualmente per il mondo che la circonda, a non appartenere più a una terra, a non essere più conosciuta, a non poter più aiutare la gente povera a sconfiggere le malattie. A tale prospettiva disumanizzante di matrice razionalistica e maschile, la donna contrappone il sogno di un'esistenza fatta di gioia, di amore, di passione, che si delinea nei fantastici viaggi presso la città del diavolo. Benvenuti ha sottolineato, infatti, che Gostanza si fa portavoce di un notevole idealismo eroico in quanto, pur essendo stata rapita, violentata e costretta a divenire la moglie di un bruto in tenera età, ella non ha maturato il rifiuto degli uomini come se fossero dei mostri, ma ha serbato nel cuore il desiderio di incontrare il principe azzurro, che presta le caratteristiche al suo Satana. Ma la resistenza psicologica di Gostanza è vana, anche perché la sua stessa personalità, il suo stesso crudele passato, il suo stesso indicibile dolore potrebbero essere un inganno, l'illusione offerta da un fantasma su un piatto incrinato, cosicché a nessuno, né dentro né fuori dal film, sarebbe lecito esprimere alcun commento. L'altissima torre, terribilmente nera in controluce, che delimita l'inizio e la fine del film come due argini in tal caso davvero infernali, sancisce la vittoria schiacciante e secolare della dimensione politica sull'individualità umana.

(Leonardo Speranza)

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