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Cose di questo mondo
(GB 2002) di Michael Winterbottom con Jamal Udin Torabi, Enayatullah
Il viaggio del giovane Jamal dal campo profughi
di Peshawar, al confine tra Pakistan e Afganistan,
fino a Londra. Odissea a ritroso sull'antico tracciato della via
della seta che, però, dei vecchi viaggi dei mercanti conserva soltanto
i lenti tempi da marcia senza fine. Anzi, via verso quelle "piantagioni
di cotone" per gli schiavi del terzo millennio, rappresentate dalle
metropoli occidentali. Viaggi senza la voglia del viaggio; viaggi iniziati
senza il punto esiziale che segna il passaggio dalla stasi al movimento
(cosa che presupporrebbe l'idea di una casa che invece non c'è);
viaggi verso una terra che non è promessa, o perchè negata
dai vari leghismi o perché semplicemente non desiderata; meta scelta
senza avere scelta, agognata senza passione; movimento senza impulso del
movimento ma per semplice inerzia della speranza. Viaggi che non hanno più
in sè la curiosità dello sguardo, viaggi senza luce negli
occhi.
Il film di Michael Winterbottom, premiato con l'Orso d'Oro
all'ultima edizione del Festival di Berlino, ha senz'altro il merito
di portarci vicino, con l'emozione e l'amplificazione che soltanto il grande
schermo sa restituire, una delle maggiori tragedie di questi anni, quei
viaggi della speranza da terre di nessuno al paradiso sognato dell'occidente
che qualche volta guadagnano le prime pagine dei telegiornali e della carta
stampata, ma che mai attirano la nostra attenzione per più di un
fugace commento di rammarico.
Con uno stile a metà tra dogma e reportage giornalistico, Winterbottom
vorrebbe farci viaggiare insieme a Jamal e a suo cugino Enayat, i due giovani
pakistani in fuga dalla desolazione di troppi dopoguerra. Con loro attraversiamo
il Pakistan, le pianure iraniane, le montagne del Kurdistan
al confine con la Turchia, e poi il mediterraneo, che non è
più il mare di Ulisse, ma una desolata e muta autostrada d'acqua
senza più alcun canto di sirene, dove gli uomini viaggiano come la
merce, chiusi in container sigillati.
Il film ha momenti molto intensi, come la traversata notturna in Kurdistan
tra il confine iraniano e quello turco dove la camera, con l'uso del nightshot,
segue questi uomini che sembrano ridiventati prede braccate come l'umanita
delle origini. Eppure c'è qualcosa nel film che lascia freddi: vediamo
tutto, ci illudiamo di capire e di condividere, ma un invalicabile, invisibile
diaframma si frappone tra noi e loro. Winterbottom è troppo
compiaciuto, ai limiti dello stilizzante, per farci davvero partecipare
alla vicenda. La forza della storia vorrebbe una regia più controllata,
rigorosa e forse più riservata. La macchina da presa risulta troppo
distante dai personaggi per troppa ostentata, invadente vicinanza, come
nella tragica sequenza della morte per asfissia in un container sigillato.
Non a caso, forse per consapevolezza dei propri limiti di empatia, l'obiettivo
non incrocia mai gli sguardi di questa umanità derelitta.
In definitiva un opera lodevole per aver portato alla ribalta storie a noi
così vicine e allo stesso tempo invisibili al nostro sguardo e alle
nostre coscienze. Ma anche opera furba, un po' troppo ammiccante verso il
pubblico impegnato, che Winterbottom dimostra di saper adulare e
compiacere con manierata bravura.
(Giulio Arcopinto)
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