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A.I. (Usa 2001) di Steven Spielberg con Haley Joel Osment, Jude Law, Frances O'Connor, Brendan Gleeson

Rischia di soffocare sotto il pesante fardello delle incomprensioni e dei fraintendimenti uno dei risultati artistici più alti dell'intera filmografia spielberghiana. Accusato sia di tradire lo spirito caustico, il distacco beffardo, lo sguardo analitico, l'ossessione demiurgica della messinscena kubrickiana con la melassa consolatoria del suo neo-umanesimo, sia di aver raffreddato, al limite dell'aridità emotiva, la sua comprovata capacità manipolatoria, Spielberg ha in realtà diretto un film profondamente provocatorio e destabilizzante, un'opera coraggiosa che ridefinisce, forse in modo definitivo, il rapporto, finora rassicurante e giubilatorio, con il suo pubblico.
Insomma nel portare sullo schermo un progetto a lungo accarezzato da Kubrick (almeno dalla fine dei '70) Spielberg aveva tutto da perdere. Ma va detto subito: nonostante l'indubitabile sottotesto kubrickiano, A.I. è un film spielberghiano al cento per cento. E, quindi, mai come per questo film la politique des auteurs si rivela chiave di lettura indispensabile per il pieno riconoscimento e la corretta analisi del risultato finale.
A.I. è nato, da parte di Spielberg, come pudico omaggio a un genio del cinema, un omaggio rispettoso e commosso. Ma un omaggio che Spielberg ha inteso non come pedissequa e imbarazzante ripresa di finalità e topoi kubrickiani. Ha capito cioè, molto prima di tanti giornalisti che si sono sentiti in dovere di rimarcare la cosa con un senso di tronfio snobismo e provinciale folclore, la non praticabilità del confronto espressivo col cineasta del Bronx, la non belligeranza estetica con uno dei più autorevoli e carismatici registi della storia del cinema.
La natura provocatoria del film si evince proprio dalla particolare operazione che Spielberg ha fatto sul materiale kubrickiano: ha spiazzato le attese di tutti portando all'esasperazione il suo insopprimibile côté sentimentale ed emotivo, la sua sdolcinata naivité, lontana mille miglia dal pessimismo materialistico di Kubrick, puntando allo stesso tempo ad una ambizione espressiva e ad una risolutezza intellettuale che non hanno eguali nella sua filmografia di hit miliardari. Dopo la sfilza di successi artistici e commerciali degli ultimi tempi, ci pare questo un atto di coraggio colpevolmente sottaciuto dalla stampa specialistica.
A.I. è, al di là della sua intrinseca valenza polisemantica, uno straziante psicodramma, un poderoso vortice di emozioni, una sfavillante cornucopia di idee, un prezioso regesto di momenti visionari, ma soprattutto una commovente dichiarazione d'intenti e di poetica. Mai prima d'ora Spielberg aveva osato portare allo scoperto, così intensamente, così soffertamene, le sue più profonde convinzioni, le sue più riposte speranze, le sue più inconfessabili paure. Ogni fotogramma trasuda una densità drammatica, un'intensità d'ispirazione, una tensione lirica che non si avvertiva da tempo nella sua opera (almeno dalla prima, straordinaria, mezz'ora de L'impero del sole e dalle scene della liquidazione del ghetto in Schindler's List).
Ma l'ultima fatica di Spielberg è stata, e probabilmente continuerà ad essere, vittima di un ironico contrappasso.

A.I.

Jude Law

Spielberg e Haley Joel Osment sul set

A.I. manifesto

Haley Joel Osment

Destino ha voluto che l'opera più attesa, più misteriosa, più apologetica del cineasta più popolare e seguito della storia del cinema sia stata rifiutata quasi in blocco dall'ostilità cinica e dal qualunquitisco disincanto di quegli spettatori che avevano finora decretato la fortuna commerciale del suo cinema e a cui anche quest'opera (per inconfessabile desiderio di Kubrick e per espressa dichiarazione di Spielberg) era destinata.
Senza la minima concessione a istanze e situazioni à la page, senza pesanti riferimenti e ammiccamenti modaioli (com'era il caso per intenderci di E.T., formidabile esercizio affabulatorio, ma con profonde radici nell'immaginario e nella cultura di una America paradigmaticamente middle-class), A.I. è senz'altro la favola più universale del regista di Cincinnati, quella più sincera e rigorosa. Forse anche la più personale, la più meditata, certamente la più autorale.
Il che spiega forse le vere ragioni del suo insuccesso.
Non ci si riferisce soltanto alle istanze contenutistiche, ma soprattutto alle soluzioni stilistiche adottate: il ricorso alle forme del melodramma e del Bildungsroman a discapito della spettacolarizzazione fantascientifica, il ritmo sottilmente meditativo, la totale mancanza di civetterie citazioniste, il dosaggio felice dello schmaltz, l'assenza di stilemi e virtuosismi compiaciuti (tranne qualche perdonabile occhieggio nella parte centrale), il ricorso "poetico" ed espressionistico agli effetti speciali (di una invisibilità davvero rivoluzionaria), il controllo emotivo nelle scene madri (una scena straziante e potenzialmente patetica come quella dell'abbandono di David nella foresta è risolta quasi esclusivamente con l'utilizzo di campi medi).
Accusato da certa critica di essere un film diseguale, incompiuto, velleitario, in balia della sua spiccata suddivisione in tre atti distinti e dei suoi irrisolti scarti tonali, A.I. è un'opera che, tranne per qualche lungaggine nella parte centrale (le scene nella Flesh Fair risultano troppo cormaniane, un po' sdrucite e affrettate; il pellegrinaggio di David e Gigolò Joe a Rouge City non abbastanza scavato) vibra di una sostenutezza lirica e di una misura espressiva che Spielberg sembrava aver definitivamente accantonato con le sue ultime opere.
I primi cinquanta minuti sono dosati al millimetro, perfetti, il montaggio di Michael Kahn è preciso come un bisturi e taglia le sequenze del film in una serie di ellissi e condensazioni che producono una tensione costante e a tratti insostenibile. Il viaggio a New York possiede una stupefazione visionaria che non ha eguali nel cinema hollywoodiano, e non solo. E, nell'epilogo, Spielberg osa l'inosabile. Si avventura in territori in bilico fra l'esistenzialismo e il misticismo, spinge sul pedale del sentimentalismo e della visionarietà, si mantiene programmaticamente sospeso fra il sublime e il caramelloso, protrae in maniera agonica la risoluzione della vicenda. Allora critiche in massa, infuriati anatemi, risolini di disprezzo al finale, giudicato ridicolo quando non addirittura disgustoso. In realtà ci pare non si possa dubitare non solo della legittimità spettacolare e visiva, ma anche della logica narrativa stringente, della omogeneità poetica delle ultime scene, fedeli come sono agli assunti e alle premesse dell'opera (a differenza per esempio di Schindler's List o di Salvate il soldato Ryan che nel finale scivolavano in trappole parenetico-ricattatorie, sostanzialmente estranee all'impianto sobrio e alla vivacità stilistica che caratterizzano i loro presupposti filmici).
Ancora una volta, come anche in Incontri ravvicinati del terzo tipo (opera quanto mai rappresentativa della sua poetica), Spielberg testimonia, con maggior forza proprio nel finale del film, della sua fede "religiosa" nel potere fondante dell'immaginario e nella forza salvifica del sogno. Come la Devil's Tower era, oltre che luogo di incontro fra umani ed extraterrestri, occasione di un film nel film, toccante formalizzazione della sua professione di fabbricatore di sogni, così anche le ultime scene di A.I. (forse gli unici momenti del film che tradiscono una patente analogia strutturale con il 2001 kubrickiano) palesano un evidente contenuto allegorico e metalinguistico, una suggestione metaforica che è difficile sottovalutare.
Qui con una consapevolezza in più: che alla fiducia incondizionata verso il vitalismo mitopoietico rappresentato dal cinema e alla speranza messianica di una fratellanza panica si accompagna la presenza ineluttabile della morte e della finitudine. Micidiale carezza, angelo nero di ogni esistenza.
Così chi ha letto nel finale del film un inappropriato e scontato happy-end, capace di cancellare del tutto, come con un colpo di spugna, l'atmosfera melanconica e distopica del racconto, è sfuggito, o ha rimosso, l'abisso psichico, il sortilegio amaro e disperato in cui cade lo spettatore alla fine della visione.

(M.R.)

 

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