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A proposito di Schimdt (Usa 2002) di Alexander Payne con Jack Nicholson, Hope Davis, Dermot Mulroney, Kathy Bates

Warren Schmidt va in un fast food e chiede un frullato. “Piccolo, medio o grande?” domanda la cameriera, “Medio” risponde Warren.
Alexander Payne non è Ligabue e la vita da mediano, per lui, è qualcosa di terribilmente triste. “Quando mai io ho fatto la differenza” constaterà il protagonista nell’epilogo. Oriali la faceva, e come se la faceva. Da un racconto di Louis Begley, Payne ed il fedele Jim Taylor (lavorano insieme come revisori di sceneggiature irrisolte: Jurassic Park 3, Ti presento i miei) traggono questo disincantato e spietato ritratto degli Usa in cui la mediocritas è tutt’altro che aurea. Nicholson si mette al servizio del plot (sostanzialmente scritto pensando a lui) più di quanto sia solito fare, riuscendo a trattenere i gigionismi di sempre ed evitando di calamitare tutta l’attenzione su di lui a scapito degli altri interpreti (Mulroney è sorprendente, la Bates stupenda non meno di quanto sia coraggiosa nel mostrare, all’età che ha, i seni). L’America, secondo il regista, è un grande paese, nel senso che, nonostante le dimensioni, è animata da una mentalità piuttosto provinciale, fatta di cene d’addio, album di famiglia, finti sorrisi, finti discorsi ai matrimoni, finte lettere (nel senso di impersonali missive ciclostilate) di ringraziamento da parte associazioni umanitarie e finti disegni di bambini africani (dove il piccolo ed il genitore adottivo a distanza sono entrambi bianchi). Ma tanto basta a Warren per commuoversi e riprendersi dallo scoramento. In fondo: “basta poco, che ce vo’?”.

(Rosario Gallone)

 

 

 

 

 

 

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